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Così era Giorgio Santerini

16/09/2013
Domani, alle ore 11 nella chiesa di San Marco a Milano, si svolgeranno i funerali di Giorgio Santerini, già segretario della Federazione nazionale della stampa.
Ecco come lo ha ricordato Mariagrazia Molinari, che ha collaborato a lungo con lui.

Sabato 14 settembre Giorgio Santerini ha cambiato vita, ha cambiato mondo. A 75 anni, dopo aver lottato strenuamente, come solo lui sapeva fare, contro il “grande male”.
Dire che non c’è più è sbagliato perché Giorgio resterà una figura di riferimento per un considerevole, molto considerevole, numero di persone: giornalisti, sindacalisti, politici, intellettuali. Perché lui stesso è stato proprio tutto questo.
Giornalista, innanzitutto. Il giornalismo è stato il filo conduttore del suo realizzarsi e delle sue realizzazioni. Lettore insaziabile – leggeva di tutto ma privilegiava la storia – naturalmente curioso, era dotato di acuta capacità di analisi. Aveva iniziato a scrivere per l’Avanti!, era ben presto approdato al Corriere della Sera dove avrebbe percorso tutta la sua carriera. Il Corriere, fonte di amarezze mai apertamente dichiarate, nella seconda parte della sua vita: l’aveva accolto a braccia aperte da giovane, lo puniva con l’isolamento al suo rientro in redazione quando decise di ritirarsi dal vertice della Fnsi, al Congresso di Villasimius del 1996.
Giorgio aveva una bella scrittura, un po’ sincopata, come si usa molto ora. Scrittura che ha avuto certo un’evoluzione nel momento in cui egli ha iniziato la sua “altra” carriera, quella di scrittore: “L’Orfano di Stalin”, “Il delfino del cotone – Felice Riva: ascesa e declino di una dinastia industriale lombarda”, “Strage a Brescia, potere a Roma: trame nere e trame bianche” (firmato con Achille Lega) e, recentemente “Freddocuore”.
La sua storia sindacale è di assoluto rilievo, sia per le cariche che ha ricoperto sia per quanto ha realizzato: nel 1980 e per 12 anni presidente dell’Associazione lombarda dei Giornalisti, poi Segretario della Federazione Nazionale della Stampa per sei anni, membro del Consiglio di Amministrazione dell’Inpgi, l’Istituto di previdenza dei giornalisti italiani, solo per citare le più importanti. Alla Lombarda “dovette” insediarsi per non disperdere quanto andava costruendo con Walter Tobagi e un pugno di altri colleghi. Walter venne assassinato in una fredda mattina di maggio del 1980 e Giorgio si accollò il futuro della più grande associazione territoriale italiana. Fu epoca di battaglie e conquiste.
Giorgio Santerini è stato un sindacalista multiforme: grande mediatore, grande “fantasista” nel senso che di fronte alle barriere lui inventava nuovi percorsi, suadente e aggressivo al contempo. Non perdeva mai di vista gli obiettivi che si era prefissi e quasi sempre portava a casa dei risultati importanti per quella categoria che la politica ed alcuni editori miopi avrebbero voluto – già qualche decennio fa - trasformare in un esercito di “obbedienti”. I tavoli delle trattative ai quali lui sedeva erano dei campi di battaglia dove spesso vinceva la strategia, quella di Giorgio Santerini. Qualcuno non gliel’ha perdonata la forza di conquistare il miglior contratto nazionale nella storia del sindacato dei giornalisti – balzo delle retribuzioni e difesa a oltranza delle prerogative, libertà e dignità della professione. Ma fece anche di più come ricorda il collega Beppe Giulietti, accanto a lui come vicesegretario Fnsi: riuscì a mantenere unito il sindacato dei giornalisti in un momento di grave crisi, con la scissione alle porte.
In politica Giorgio era socialista, seguace di Mancini ma senza “vincoli”. Indipendente nelle scelte e nei giudizi. Come dire, scomodo. Non fece mai parte di quella “Milano da bere” che imperava negli anni del boom economico.
E come uomo? Intanto era grande, fisicamente. Con una risata prorompente. Una voce profonda, fatta su misura per conquistare le platee: e lui parlando, incantava. La sua dialettica resta memorabile così come le sue ire. O quel gesto di spazzare via un insettino molesto dalla manica della giacca quando voleva mostrare disprezzo per qualcuno. Non tollerava la mediocrità.
Da solo non sapeva neppure farsi un caffè o accendere lo scaldabagno. Tifava per l’Inter e quando si avvicinava l’ora di una partita importante diventava intrattabile: meglio evitare riunioni se poi la sua squadra perdeva. Amava giocare a poker anche quando – giovane in via di carriera - era senza soldi. Ma negli ultimi decenni per questa sua passione non ha avuto tempo. Era un po’ tiranno. Era superstizioso: non poteva stare in un stanza dove i quadri erano storti, “portano sfortuna” diceva. Ed era capace di alzarsi da una riunione, anche importantissima, per raddrizzarne uno.
Non era cupo come raccontano alcune leggende metropolitane. Amava la compagnia, amava cantare e anche ballare. E aveva una straordinaria vena di allegria. Era fantasticamente umano.
E’ stato molto amato. E altrettanto detestato. Onore al merito.
Mariagrazia Molinari