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Il Capo con la stoffa del maestro: il ricordo di Paolo Nonni

19/05/2011
Sulla prematura scomparsa di Paolo Nonni, Caporedattore del Marche del Resto del Carlino, pubblichiamo un commosso ricordo di uno dei suoi redattori, Roberto Damiani, cronista di nera e di giudiziaria.
 
Stava male da mesi, ma ieri è morto a tradimento. Perché Paolo Nonni, 60 anni, da 35 al Carlino, aveva altri programmi: voleva tornare al lavoro quanto prima. Col pensiero non avvertiva la malattia, stava sempre bene. Sul lettino d’ospedale rispondeva al cellulare come se fosse dietro alla sua scrivania. Sbrigando il lavoro. La mente gli andava al Carlino, al direttore di Bologna, ai capi intermedi, alle rubriche da fare, al suo «arsenico» da dettare per la prima pagina (lo ha fatto dall’ospedale fino a venerdì). Poi lunedì l’aggravamento delle sue condizioni e la morte sotto gli occhi del figlio Francesco, della moglie Giuliana, dei due fratelli Giorgio, Luigi e delle cognate. I funerali si svolgeranno oggi (giovedì 19 maggio) alle 15,30 nella chiesa dei Cappuccini a Pesaro (via Cardinal Massaia). Ieri pomeriggio alle 18 il rosario. Piovono in redazione messaggi di cordoglio da tutto il mondo cittadino e non solo. Anche da quello istituzionale, politico e della cultura.
Lui era convinto che sarebbe tornato prima dell’estate al suo posto, dietro a quella scrivania color noce chiaro del Carlino, in via Manzoni, zeppa di ninnoli cinesi, campanelle e uccellini cinguettanti, che irresistibilmente Paolo comprava dai venditori ambulanti che passavano di qui. Gli davano allegria, ed era quello il suo carattere. Sminuiva la complessità delle cose, le riconduceva sempre a pane e salame perché «il lettore non è quasi mai un esperto». E non dovevate parlargli troppo di numeri. Gli davano il mal di testa.
Paolo aveva due strade davanti a sé: il palcoscenico o il giornalismo. Ha scelto la seconda, perché per la prima gli aveva già soffiato l’idea Celentano. Così Paolo si è ritrovato con la penna in mano per scrivere il giornaletto degli scout di Urbino. E poi il giornale di classe, le prime corrispondenze da Urbino, l’Università che andava raccontata, le contestazioni, i sequestri, le rivolte nel carcere di Fossombrone. Paolo c’era, con la sua penna e il bloc notes. L’articolo, la notizia, il titolo, il taglio, erano più forti di lui. Doveva raccontare ciò che vedeva e viveva. Terzo figlio di un insegnante d’arte di Urbino, la mamma Lina vivente ultracentenaria, Paolo aveva una virtù sopra tutte: l’autoironia, che rovesciava sugli altri con la leggerezza di una piuma di maggio. Al fratello Giorgio, sabato scorso, aveva confidato una preoccupazione. Che non riguardava la sua salute. No, quella sembrava una pratica in rapida risoluzione. No, era preoccupato sull’opportunità o meno di mandare un certificato medico all’ufficio personale dell’azienda, perché finora aveva consumato solo ferie. Ne aveva camionate ancora da smaltire.
Ci teneva a dire di non aver mai mandato un certificato di malattia in 35 anni di carriera. Progettava il futuro e soffriva dovendo restare bloccato in quel lettino d’ospedale. Già, gli ospedali. Li ha sempre maneggiati a distanza di sicurezza, come se per stare bene fosse necessario non transitare nemmeno vicino ai reparti. Quando è stato costretto ad andarci, si è foderato il lettino, le sedie e i termosifoni di giornali. Al suo primo ricovero nel novembre scorso, il corridoio del reparto sembrava la fila alle Poste per la pensione. Al che i medici, hanno dovuto limitare gli arrivi. Perché sembrava impossibile che Paolo Nonni dovesse avere una gomma bucata. Eppure era così. La gravità della situazione è apparsa subito chiara, ma Paolo ha fatto quello che gli riusciva meglio quando risolveva a modo suo i problemi: un’alzata di spalle, gli indici bagnati con la saliva, e via andare.
Ai giovani che entravano in redazione chiedendo di collaborare, praticava una speciale tortura. Li lasciava seduti da soli nel suo ufficio almeno venti minuti. Chi resisteva e non se ne andava, allora poteva promettere qualcosa di buono. Per la direzione de il Resto del Carlino di Bologna, i giudizi di Paolo sui giornalisti che passavano a Pesaro, erano come sentenze della Cassazione. C’era il timbro del più bravo caposervizio della vecchia guardia. Che a differenza dei «vecchi» cronisti, non si spaventava di fronte alle nuove tecnologie, le domava con i suoi sistemi, intuendo una prassi e portando sempre a casa il risultato. Il primo su tutti: il giornale alle 9 di sera doveva essere chiuso. Se era necessario riaprirlo alle 10 o alle 11 di sera per un evento grave, sapete chi piombava per primo in redazione? Lui, il Capo. A cui noi tutti dobbiamo tutto.