Non può che destare stupore il commento apparso nel sito della FNSI (
http://www.fnsi.it/Contenuti/Content.asp?AKey=18245#) sulla sentenza del Consiglio di Stato depositata il 16 marzo 2016 che, nel confermare sostanzialmente la sentenza del TAR, aveva annullato la delibera sull'equo compenso nel lavoro giornalistico prevista dall'art. 2 della l. 233/2012.
In particolare, stupisce il voler ancora interpretare in senso restrittivo il disposto legislativo che “non si applicherebbe a tutti i giornalisti considerati lavoratori autonomi, come erroneamente si va sostenendo, ma soltanto a coloro che hanno una posizione lavorativa che non ha in sostanza i connotati libero-professionali”.
Stupisce, anche, il voler ridurre la portata della decisione ad una mera rivalutazione delle prestazioni superiori a 144 articoli o del terzo scaglione (”in conclusione, il Consiglio di Stato non ha sostenuto che i compensi definiti nella delibera sono iniqui. Si è limitato a dire che è iniquo il compenso previsto per le prestazioni superiori a 144 articoli all’anno e inferiori a 288, invitando a considerare l’opportunità di definire anche i compensi per le prestazioni superiori a 288 l’anno”).
Il Consiglio di Stato, al contrario, ha confermato con alcune precisazioni la sentenza del TAR Lazio e non ne ha affatto “ristretto e delimitato le valutazioni”, respingendo, tra l'altro, con decisione anche l’appello incidentale proposto dalla FIEG.
Queste le considerazioni svolte dal Consiglio di Stato e riassunte dai legali che hanno efficacemente assistito il Consiglio nazionale nelle varie fasi giudiziali
1. Sull’illegittimità della distinzione tra giornalisti autonomi e parasubordinati
Il Consiglio di Stato conferma che la delibera assunta dalla Commissione contrasta con la stessa legge sull’equo compenso n. 233/2012: il Legislatore non aveva infatti operato alcuna distinzione tra lavoratori autonomi e “parasubordinati”, come invece ha tentato di fare, senza riuscirvi, la Commissione istituita presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri. Proprio con riguardo al tentativo di restringere l’àmbito di applicazione dell’equo compenso, il Consiglio di Stato sostiene che: “una simile limitazione non trova riscontro nella normativa. Basti considerare che, come sottolinea il Consiglio dell’Ordine appellante principale la disciplina in materia di contratto a progetto non si applica direttamente al lavoro giornalistico, essendo escluse le professioni per le quali è necessaria l’iscrizione ad un albo professionale (cfr. art. 61, comma 3, d.lgs. 276/2003, non modificato dall’art. 1, comma 27, della legge 92/2012, e confermato anche dall’impostazione del c.d. jobs act - art. 2, comma 2, lettera b), d.lgs. 81/2015)”.
2. Sull’interpretazione da dare alla ratio della disciplina dell’equo compenso
Il Consiglio di Stato offre anche l’interpretazione della ratio della legge sull’equo compenso, sottolineando che: “… ciò che la normativa in esame intende garantire è una tendenziale equità retributiva tra chi è dipendente (ed è quindi retribuito sulla base dei criteri stabiliti attraverso la contrattazione collettiva) e chi non lo è, e quindi resta sottoposto alla forza contrattuale dell’editore, aspetto fondamentale che prescinde dall’organizzazione dello svolgimento della prestazione lavorativa. Pertanto, non sembra possibile modificare il dato testuale, che si riferisce indistintamente a tutte le forme di lavoro non subordinato, attraverso il collegamento a qualificazioni e discipline che non riguardano il settore giornalistico”.
3. Sull’art. 36 della Costituzione
E, ancora, il Consiglio di Stato mostra di condividere, con le sue precisazioni, la posizione del TAR che aveva annullato la delibera in quanto contrastante con i principi derivanti dall’art. 36 Cost. Secondo il Consiglio di Stato, infatti, il principio di proporzionalità e sufficienza della retribuzione è recepito nella legge 233/2012 attraverso l’espresso riferimento alla “coerenza” che deve essere assicurata rispetto alla contrattazione collettiva.
Insomma, un compenso può dirsi equo se è coerente con quello previsto dai contratti collettivi.
Per condividere la decisione del TAR il Consiglio di Stato osserva pure che la delibera, per il caso dei giornalisti dei quotidiani, prevede che: “a una maggior quantità si collega una pesante riduzione proporzionale del corrispettivo (a fronte del raddoppio, da 145 a 288, del numero di articoli, viene garantito un “trattamento economico variabile” che garantisce un incremento pari a soltanto il 60% del “trattamento economico minimo”), che la qualità del lavoro non risulta affatto espressamente considerata, e che nello stesso appello, tra i trattamenti economici minimi, viene portato ad esempio quello spettante al giornalista di quotidiani, al quale viene garantito un importo lordo annuo di 3.000 euro per un minimo di 144 articoli di almeno 1.600 battute (vale a dire, euro 20,33 ad articolo), senza che si dia minimamente conto della coerenza di esso (e degli altri parametri) con la disciplina della contrattazione di settore…”. In altri termini, la diminuzione proporzionale dei corrispettivi rispetto alle prestazioni svolte è illegittima perché la Commissione non ha valutato, né spiegato, se una tale previsione sia coerente o meno con le retribuzioni previste dal CCNL.
4. Sull’ “effetto conformativo” (i.e. necessità di conformarsi alla sentenza e rinnovare i lavori della Commissione)
Secondo il Consiglio di Stato (nel paragrafo 8.6, secondo capoverso): “Il Collegio osserva che dall’annullamento della delibera per i motivi ritenuti fondati dal TAR e sopra confermati, tenuto conto della stretta interdipendenza che la determinazione dell’equo compenso tra i diversi scaglioni e rispetto alle diverse tipologie di prodotto editoriale è destinata ad assumere, discende come effetto conformativo una rinnovazione delle valutazioni che investirà necessariamente ogni parte della delibera, comprendendo quindi anche la valutazione sulla necessità e/o opportunità di comprendere o meno nell’equo compenso anche il c.d. terzo scaglione, ed, eventualmente, sull’entità dei relativi compensi, nonché di disciplinare le prestazioni superiori al livello minimo nei periodici delle imprese firmatarie dei contratti U.S.P.I.”.
In altre parole il Consiglio di Stato osserva che la Commissione dovrà riunirsi nuovamente e rinnovare le proprie valutazioni su:
la necessità/opportunità di comprendere anche il c.d. “terzo scaglione” (di cui si era discusso ma che non è stato poi incluso nella versione definitiva della delibera);
l’entità di tutti i compensi previsti nei vari scaglioni e nelle altre tabelle allegate alla delibera ora annullata;
la disciplina dell’equo compenso, anche per importi superiori al minimo, da riconoscere nei contratti USPI.
Al di là delle valutazioni giuridiche sopra esposte, desta, infine, tristezza la conclusione del commento della FNSI:
“Poiché la commissione è scaduta per decorrenza dei termini e poiché la delibera è stata annullata, non è più possibile procedere alla definizione dell’elenco delle aziende “virtuose”. È questa la conseguenza dell’annullamento della delibera della commissione. I principi stabiliti dal Consiglio di Stato dovranno essere esaminati anche al tavolo contrattuale Fnsi-Fieg, oltre che nella commissione governativa, nel caso in cui dovesse essere ripristinata. La formazione e la riconvocazione di quest’ultima sono infatti subordinate all’approvazione della legge sull’editoria, essendo – come sottolineato – la precedente commissione scaduta per decorrenza dei termini.”
I termini per una convocazione della commissione non sono ancora scaduti ma già si invoca la loro scadenza per sottrarsi ad un obbligo che prima di essere giuridico è di valore morale nei confronti dei giornalisti lavoratori autonomi presi in giro da una delibera che portava più lavoro, meno garanzie, meno retribuzione.