Queste riflessioni di Nicola Nocella sono state lette oggi durante il Consiglio nazionale dell’Ordine dei Giornalisti. Sono parole che rispecchiano lo stato d’animo di tutti i consiglieri dopo il disastro ferroviario di Andria.
Il mio giorno più lungo
Non ho molta voglia di scrivere, ma se c’è stata mai una volta in cui ho avuto bisogno di farlo, quella volta, è stasera.
Io sono coratino. Purosangue. Posso non stare simpatico a tutti i miei concittadini, ma il mio sangue non me lo toglie nessuno.
Oggi, molti di voi, hanno scoperto dov’è Corato, che è vicina ad Andria, e che tra Corato e Andria noi abbiamo viaggiato per cinquant’anni su un binario unico.
Già.
E pare che sia l’unica cosa che gli esperti in giro per l’Italia sono in grado di sottolineare.
Ho sentito una valanga di cazzate. E non c’è un termine diverso da poter usare, solo cazzate.
Da parte di “opinionisti” che, chissà, un treno della Bari nord non l’hanno preso mai. Ma si, mi prendo la responsabilità di dirlo: gente che non aveva idea di che cosa fosse la Bari nord, anzi, la ferrotramviaria, fino alle undici e mezza di oggi.
Io sì. Io e tanti tanti tanti tanti altri sì.
Tutti quelli che da Bari a Barletta vivono e respirano hanno preso almeno una volta un treno di quelli. Ci hanno viaggiato.
Ma molti, moltissimi, ci hanno vissuto.
Io ho preso uno di quei treni centinaia di volte. Centinaia. E c’è gente che tuttora, ancora, lo prende.
C’è gente che l’ha preso oggi. Dopo il dramma. Perchè per noi quella è vita.
Tutti ci siamo seduti in un particolare posto perchè c’era quella ragazzina che scende sempre a Terlizzi che porta sempre i capelli legati. Tutti abbiamo preparato un ultimo esame nella concitazione mattutina. Tutti siamo andati almeno una volta nell’ultimo vagone, perchè era quello più vuoto.
Tutti, perchè per noi era normalità. Era più sicuro. Era più veloce.
Tutte le volte che andavo a Bitonto in ufficio. Tutte le volte che andavo a Ruvo in fumetteria. E quando andavo a Terlizzi in ospedale da mio nonno.
E tutte le volte che parto per Roma. Che abbraccio mia madre e le dico “ti chiamo appena arrivo”. E la chiamo quando arrivo a Barletta.
Quando parto per Roma, io prendo esattamente quel treno. Esattamente quello. Per arrivare prima a Barletta e mangiare un cornetto, prima di prendere il treno.
Esattamente quello. Esattamente.
E sento, potente quel “driiin” che ci dice che il treno arriva e che poi può ripartire.
E ogni volta c’è quella ragazzina che da Barletta torna a Corato che è tanto carina, che aspetta in banchina.
Tutti noi, su quei treni, abbiamo litigato. Abbiamo pianto. Non avete nemmeno idea di quanti ne ho visti piangere. Quando mi ha lasciato la mia donna, tanti anni fa, sono andato e tornato da Ruvo e mi sono semplicemente messo a piangere. E quanti ne ho visti piangere. Tutti noi abbiamo riso. Tutti noi abbiamo “deciso”. E tutti noi abbiamo vissuto.
Ho passato la giornata davanti alla tv, fingendo di non sentire il suono delle sirene, delle ambulanze e dalle urla. Da chi, stavolta, piangeva fuori dal treno.
E quante volte ero lì, su quella banchina, ad aspettare che arrivasse lei, i suoi occhi azzurri, i suoi capelli biondi, e il suo sguardo che mi cercava.
Quante volte ho abbracciato, su quella banchina.
E baciato. E amato.
Ho passato il giorno davanti alla tv perchè conosco benissimo quella curva, e non mi ha mai fatto paura. E oggi me ne fa.
Ho visto un lavoro eccezionale da parte di giornalisti locali, che hanno vissuto il terrore. L’apocalisse. Perchè non c’è un modo diverso per chiamarlo. L’inferno.
Adesso sono 25, ma saranno di più.
Parliamo di rabbia?
Parliamo di dolore.
Anzi, non parliamo affatto.
Ho sentito troppe parole. Troppe accuse gratuite e troppe “fandonie”. No, chiamiamole com’è giusto, cazzate.
Uno di quei treni non doveva essere lì. Lo sappiamo. Quando vi hanno detto che i morti erano pochi, e poi dieci, tutti noi, qui, sapevamo che sarebbero stati molto di più.
Perchè su quei treni, noi, prima di arrivare a “Ruvo station” ci siamo stati troppe volte.
E siamo quel che siamo perchè noi, lì, c’eravamo.
Quei treni, tutto quello che hanno rappresentato negli ultimi cinquant’anni, per noi sono uno dei motivi per cui abbiamo pensato di poter partire. Di credere nei nostri sogni. E uno dei motivi per cui partivamo era perchè sapevamo di essere in grado di tornare.
Io, quella stazione per cui ora voi vi indignate, l’ho vissuta per tutta la vita. E quel capostazione che ho appena visto intervistato da sky, mi saluta tutte le volte. E mi chiede come sto. E mi sorride. E così triste, non l’avevo visto mai.
Non ho smesso un minuto di piangere. E come me tutti. Tutti. Perchè oggi tutti noi abbiamo perso qualcosa. Qualcosa di molto grande.
Eppure, non riesco nemmeno a immaginare lontanamente il dolore di chi, adesso, è lì, al palazzetto di Andria, aspettando di avere notizie.
Non riesco nemmeno a mettere il mio cervello in condizione di pensarlo.
Quello di uscire di casa, come tutti i giorni, e non tornare più.
Bum
Lasciateci al nostro dolore.
Ogni volta che il telefono squillava, oggi, tremavo.
E’ stato il nostro undici settembre.
Voi ve ne dimenticherete presto, noi non lo dimenticheremo mai.
Ma sarà un’altra, la cosa che non dimenticherò mai.
Alle undici e mezza c’è stata la tragedia.
Nemmeno a mezzogiorno c’erano già tutti i soccorsi. Tutti. Una macchina perfetta. Quattro elicotteri della protezione civile. Dopo poco più di un’ora c’era già un ospedale da campo pronto accanto al disastro. Alle due e mezza negli ospedali c’erano tutti i medici che potevano esserci. Alle tre meno un quarto c’era già la FILA di donatori in giro nei punti di raccolta. Ci hanno chiesto di tornare domani.
E gli operatori del servizio di donazione erano lì da stamattina. E adesso, scrivo alle 23, sono ancora lì.
Come tutti i vigili del fuoco. Tutti i volontari. Tutti i poliziotti e tutte le guardie forestali.
Dopo tre ore dalla tragedia, il palazzetto dello sport di Andria era un grande centro di raccolta. Di protezione per i parenti. E di informazione.
Questa Puglia, che molti hanno saputo solo sputtanare, si è rintanata nel suo cuore e ha fatto in modo che riprendesse a battere.
Non sono mai stato più orgoglioso di essere coratino, di essere pugliese.
E adesso, al buio, mentre ancora si scava, mentre i politici sono già arrivati e andati, la gente comune arriva nel luogo del disastro per portare acqua, cibo e abbracci a chi è lì da stamattina.
E’ una tragedia immane, l’hanno detto tutti. Ma le parole, quelle cose che sono così importanti, a volte vanno usate a ragione:
una, tragedia, immane
Presto torneranno a fare rumore solo i nostri ulivi, il nostro orgoglio più grande, che sono lì da centinaia di anni e ci resteranno ancora, mentre continuano a crescere e rinascere ogni volta, ogni giorno, per tornare a vivere.
Come hanno insegnato a farlo a noi.
Che tornino a frinire le cicale.