L’iter parlamentare del ddl “Editoria”, approvato ora definitivamente dalla Camera, ci propone un terno da giocare al lotto sulla ruota di Roma: 18, 36 e 60. Questi i numeri che di volta in volta, dalla proposta iniziale che puntava al completo disfacimento, fino all’ approvazione al Senato, sono stati previsti per il ridimensionamento del Consiglio nazionale dell'ODG. La composizione del Consiglio, improvvisamente, un anno fa, è diventata un’emergenza di Stato, al centro di dibattiti molto interessanti, o interessati, per trovare – così hanno sostenuto in tanti- una soluzione finale a tutti i problemi che affliggono la categoria.
Disoccupazione, regole di accesso alla professione, sostenibilità dell’ Inpgi, precariato, abusivismo, “caporalato giornalistico”, vertiginoso calo di vendite e di entrate pubblicitarie, tutto è passato in secondo piano per concentrarsi sul problema primario che era quello di cambiare le regole del gioco per potere conquistare l’Ordine Nazionale. Poco importa se ad essere sacrificate saranno diverse regioni che rischiano di non essere più rappresentate in Consiglio e ancora meno se è stato stravolto lo spirito delle legge 69 del 1963 voluta da Guido Gonella, grande giornalista veronese, uomo politico di profilo e ministro di Grazia e Giustizia. Più che sul numero dei consiglieri nazionali (siamo tutti d’accordo che doveva essere ridotto), l’obiettivo fondamentale cui hanno puntato gli sponsor sin dall’inizio era quello di prescrivere nella delega al governo una riduzione “condizionata” con quell’ agognato “rapporto di due a uno tra professionisti e pubblicisti”.
La Camera si era inventata addirittura, solo per questi ultimi, la posizione previdenziale Inpgi come condizione necessaria per l’elettorato passivo. Il Senato (meno male che ancora c’è) ha corretto quest’ultima parte estendendo anche ai professionisti tale requisito, e ha portato da 36 a 60 il numero dei componenti del futuro Consiglio nazionale, con buona pace di chi aveva già definito adeguata la composizione prevista all’inizio. Tuttavia, disposizioni superiori hanno blindato l’iniziale rapporto di rappresentanza del 2 a 1 tra professionisti e pubblicisti, rivelando che su questo argomento non vi erano margini di trattative. L’impegno evidente era quello di garantire un’adeguata “sforbiciata” dei troppi, o troppo autonomi, Pubblicisti. Insomma, si poteva mettere in discussione tutto tranne quel rapporto del “due a uno”, più volte acclamato in altre sedi, e comparso guarda caso con le stesse identiche parole nell’articolato di quella che è diventata una legge dello Stato.
Risulta sacrificata la rappresentatività democratica ed è palese la penalizzazione degli oltre 70.000 pubblicisti italiani che ogni giorno riempiono pagine di giornali e i notiziari e che sono costretti a restare tali solo per una legge non scritta imposta dal mercato del lavoro giornalistico. Con questa legge viene sancito un principio che penalizza la maggioranza degli iscritti all’Ordine, che purtroppo sono già i meno garantiti. L’Ordine dei Giornalisti, unico ente di categoria non in crisi, che rappresenta il pilastro fondamentale per la tutela dei giornalisti e il diritto dei cittadini ad essere informati, meritava una riforma vera e non poche righe inserite in una legge nata inizialmente per sostenere gli editori.
Così è se vi pare…
Ma a questo punto però nasce un nuovo problema: stabilito per legge dello Stato che i Pubblicisti “pesano” la metà dei Professionisti, non diventa doveroso e legittimo proporzionare e dimezzare anche le loro quote rispetto ai Professionisti? Questi ultimi saranno sicuramente i primi a non volere più che l’Ordine si mantenga soprattutto con i soldi dei Pubblicisti che attualmente forniscono oltre il 70 per cento delle entrate. O no? Chi vivrà… vedrà.
Santino Franchina
Vicepresidente Ordine Nazionale Giornalisti