Autore:
Pier Luigi Vercesi
Editore:
Sellerio (2014), pag.382, Euro 18,00
Storie di giornali e di giornalisti, dai grandi ai meno noti, ognuno con l’esatta cifra della propria personalità. Come quella di Silvio Pellico che, allo Spielberg, realizzò un reportage che sarebbe entrato nella storia. Oggi – osserva Vercesi – gli verrebbe attribuito il Premio Pulitzer. “Le mie prigioni” è la classica inchiesta sul campo, dentro la notizia. L’avrebbe resa sistematica, ottant’anni più tardi, lo scrittore-giornalista Jack London che, nel 1903, pubblicò un leggendario servizio sulla povertà nell’East End di Londra (“Il popolo nell’abisso”), fingendosi un operaio inglese, per descriverne la vita e la miseria. Oppure, quando la guerra di Crimea fu uno spartiacque per le redazioni. Si stava avvicinando l’epoca in cui i giornalisti sarebbero diventati reporter sui terreni di battaglia, per raccontare in presa diretta i fatti. Fece da battistrada il “Times” di Londra, proprio nello scacchiere balcanico. E la peggiore disfatta di quel tempo – la carica dei seicento di Balaklava, con cavalli e uomini, armati di sciabole, lanciati contro i cannoni – si trasformò in un episodio eroico, perché un giornalista spedito al fronte, William Howard Russell, raccontò il disastro con toni epici.
Al centro del libro c’è la nascita del giornalismo nell’Italia unita. Non più fogli per metà letterari e per metà politici, ma notiziari veri e propri, come negli altri paesi europei. Scrive Vercesi: “Lo Stivale, diventato nazione, voleva conoscere per poter esprimere maggioranze di governo. Nel più recente passato i giornali si proiettavano nel futuro. Adesso dovevano guardare al presente”.
Nascevano così le grandi testate, dal “Corriere della Sera” a “La Stampa”, a “Il Messaggero” e aumentavano i giornalisti professionisti, i corrispondenti dall’estero e le moderne redazioni. A Roma, il 22 settembre 1870, usciva la “Gazzetta del Popolo”. Sul primo numero, anche la firma di Edmondo De Amicis, inviato di “Italia Militare”.
Al termine del percorso intrapreso, Vercesi ricorda che nel secondo dopoguerra erano tempi di carenze croniche, prima che di grandi manovre politico-partitiche, e tutto ruotava attorno ai mezzi di produzione. C’erano le macchine di via Solferino, sede della redazione del “Corriere della Sera”, trasferite nelle cantine, per sottrarle ai bombardamenti, e quelle del Palazzo dell’Informazione di piazza Cavour 2. Fu la tipografia di questo complesso che partecipò alla rinascita democratica di Milano e dell’Italia, soprattutto stampando uno degli esperimenti editoriali meglio riusciti in quegli anni: “Il Corriere Lombardo”.
Arrivò poi il tempo de “Il Giorno”, il quotidiano che rivoluzionò a metà degli anni Cinquanta, l’idea stessa di giornale del mattino. Lo scenario della stampa quotidiana lombarda sembrava predominio del “Corriere della Sera”. Secondo stime, vendeva tra le 400 e le 450 mila copie al giorno. C’era, poi, “Il Corriere d’Informazione”: ne diffondeva tra le 180 e le 200 mila. Tutti gli altri tentativi abortivano o sopravvivevano a stento. Il 30 ottobre del 1954 chiudeva “Milano Sera” e, il 26 novembre dello stesso anno, “Il Tempo di Milano”. Era una tendenza in atto in tutta l’Italia. Nel 1952 il numero dei quotidiani si era ridotto a 111 dai 136 del 1946 e, nel 1955, comprendendo anche gli sportivi, si fermava a 102. Il primato era della Lombardia con 21, seguita dal Lazio con 17 (tutti concentrati a Roma) e da Emilia Romagna e Sicilia con 9.
Pier Luigi Vercesi è direttore di “Sette”, il settimanale del “Corriere della Sera”. È autore di alcuni saggi di storia del giornalismo; ha insegnato “Teoria e tecniche del linguaggio giornalistico”, presso la facoltà di Lettere dell’Università degli Studi di Parma.