Newsletter

Tieniti aggiornato sulle nostre ultime novità!

Link

inpgi
casagit
fondo giornalisti
fieg
Garante per la protezione dei dati personali
murialdi
agcom
precariato

Paissan: il futuro del giornalismo? Nelle mani dei giornalisti

23/04/2010
Il vice presidente dell’Ordine nazionale dei giornalisti, Enrico Paissan, è intervenuto oggi al Convegno promosso dalla Federazione Italiana Liberi Editori sul tema “Lavori in corso per una riforma dell’editoria”, svoltosi presso la Sala delle Conferenze di Palazzo Marini a Roma.
Questo il testo dell’intervento:
 
Il titolo di questa iniziativa “lavori in corso” esprime compiutamente le condizioni nelle quali operano i vari soggetti che concorrono a definire il panorama e il prodotto editoriale del nostro Paese: una situazione di incertezza normativa, di perdurante difficoltà economica legata a scelte politiche, di fondati interrogativi sul ruolo e la funzione dei protagonisti stessi dell’informazione e della comunicazione o, quanto meno, di alcuni segmenti di questo mondo, i giornalisti in primo luogo.
Non è qui il caso di ritornare su alcune riflessioni di fondo, espresse in maniera esemplare dal nostro moderatore, e che ineriscono alla capacità del sistema editoriale nel suo complesso di affrontare in termini adeguati, di governare e non di subire gli effetti di un incessante processo di straordinario sviluppo tecnologico: fenomeno che riguarda innanzitutto e in via prioritaria proprio i mondi dell’editoria, della comunicazione, della conoscenza.
Certo è che per vincere queste sfide, affascinanti quantunque molto impegnative, è necessario che i vari soggetti sappiano ritrovarsi – al di là della legittima tutela dei propri interessi – in un quadro di contesto che consenta al nostro Paese, a quello che talvolta impropriamente viene definito come “sistema Italia”, di giocare, assieme, la stessa partita. Con la consapevolezza che oggi spesso così non è!
Ma mi fermo qui, per non invadere campi che altri hanno il compito di presidiare con molta più autorevolezza di me, per affrontare sinteticamente il tema assegnatomi: quello di definire, di decifrare per quanto possibile il futuro della professione giornalistica.
Ora, non c’è dubbio alcuno, ritengo, sulla consapevolezza che proprio quella giornalistica è la componente che si trova a dover fare i conti con maggiori difficoltà con gli effetti dei processi di cambiamento nel modo stesso di produrre informazione e nelle modalità attraverso le quali si esprime lo stesso consumo, se mi è consentito di usare questo termine, di questo prodotto.
Tendono sempre più a venire meno le coordinate di riferimento sulla base delle quali per decenni questa professione si è espressa: senza avventurarsi in dissertazioni sociologiche, mi pare si possa dire che stanno mutando con una velocità impressionante gli elementi strutturali del fare informazione: stime attendibili ci dicono che già oggi più del 50% di quanti svolgono concretamente attività giornalistica nel nostro Paese lavorano – e vivono – in condizioni di provvisorietà, di non riconoscimento di diritti contrattuali, di avvilenti condizioni retributive, in una parola di precariato. E non c’è dubbio alcuno che in larga misura questo sia il portato di quel processo di sostanziale destrutturazione della dimensione redazionale delle imprese editoriali che comporta pesanti conseguente: in primo luogo quella di depotenziare, sterilizzare in misura rilevante il peso delle strutture redazionali e, di converso, quella di scaricare sui giornalisti contrattualizzati la responsabilità di garantire comunque l’uscita del prodotto, finendo per attribuire impropriamente proprio a queste figure la gestione dei rapporti con quanti – collaboratori, free lance, pubblicisti – vengono richiesti di fornire la loro opera.
Dovremo pur chiederci quanti, tra gli oltre 140 quotidiani italiani, soprattutto di area e diffusione regionale, provinciale e locale, uscirebbero ogni giorno senza l’apporto delle migliaia e migliaia di collaboratori che con il loro impegno coprono la realtà diffusa delle “Mille e una Italia”.
E intanto, per effetto di questi processi, la figura del “praticante” che ha storicamente espresso il percorso di acculturazione attraverso il quale si diventava – per la legge in vigore ancora si diventa – giornalisti, questa figura è del tutto scomparsa ed è sin troppo facile prevedere che i fenomeni richiamati finiranno per incidere ancora più pesantemente nel prossimo futuro.
E qui si pone un problema di fondo: ma davvero c’è qualcuno che possa ritenere che questa tendenza alla sostanziale dequalificazione della professione giornalistica possa giovare alla qualità dell’informazione e consenta al nostro sistema, già debole e gracile per suo conto, di reggere la sfida e la competizione internazionale?
Non dice davvero nulla il fatto che il nostro è il Paese nel quale non esiste non dico una rete urbana, ma neppure un metro di cavo attraverso il quale veicolare i nuovi prodotti televisivi e informatici; un Paese nel quale i punti di eccellenza che hanno storicamente contrassegnato il terreno dell’innovazione tecnologica nei decenni scorsi – pensiamo solo al pianeta Telecom – hanno progressivamente perso funzione e presenza; un Paese, ancora, nel quale le regole della concorrenza, o le regole tout court, stentano ad essere riconosciute e praticate dai soggetti presenti nel mercato.
Tutti questi elementi “si tengono”, come si usa dire e concorrono a rendere apparentemente indefinibile la risposta all’interrogativo iniziale sul futuro della professione giornalistica.
Appare assolutamente vitale che l’insieme delle rappresentanze e delle articolazioni della categoria giornalistica sappiano esprimere con l’urgenza che l’attuale situazione esige, un modello di giornalismo adeguato ai processi di radicale cambiamento e all’esigenza fondamentale di continuare a garantire nelle mutate condizioni il ruolo essenziale di un giornalismo libero e responsabile, costruito su solide basi professionali e culturali, fattore importante, anche se non esclusivo, per tutelare e valorizzare le espressioni pluralistiche: quel compito di mediazione tra i fatti e il cittadino/lettore al quale nessuno dovrebbe abdicare, anche se i sempre più numerosi segnali che arrivano dai settori del cosiddetto “giornalismo militante” non sono certo dei più incoraggianti.
A questo proposito viene da chiedersi se davvero il giornalismo italiano sia nelle condizioni di partecipare da protagonista, certo per la parte possibile e che ad esso compete, al governo del sistema dell’informazione e della comunicazione nel pieno di quello sviluppo tecnologico che, oltre ai dati materiali della produzione, in questo ultimo decennio ha cambiato orientamenti ideali, scale di valori, comportamenti ed abitudini, lo stesso senso comune della nostra gente.
Per questo abbiamo bisogno di innovare, di cambiare il nostro modo di essere e di lavorare: in questa direzione si muove la proposta di riforma elaborata con grande spirito e disponibilità unitarie dal Consiglio Nazionale dell’Ordine dei Giornalisti oggi all’esame della Commissione competente della Camera dei Deputati.
Perché non c’è dubbio alcuno che di questa riforma abbiamo bisogno come dell’aria, nella consapevolezza che la nostra categoria, in tutte le sue espressioni ed articolazioni culturali, sindacali, organizzative, o cambia o è destinata a subire un processo di ulteriore marginalizzazione nei complessi equilibri che caratterizzano gli assetti decisionali del nostro Paese.
Già oggi la percezione dei giornalisti da parte dell’opinione pubblica non è certo esaltante e non c’è dubbio alcuno che, almeno in parte, questo è anche il risultato dei nostri limiti, dei nostri difetti, delle nostre insufficienze, come non si stanca opportunamente di ricordarci Lorenzo Del Boca.
In una nazione come la nostra che, a ben pensarci, è una sorta di arcipelago di interessi, di nicchie, di corporazioni, di particolarità, sembra davvero un’utopia o una impresa al limite dell’impossibile dare vita ad una sorta di autoriforma che, pur nella indispensabile sanzione istituzionale, parta dal basso, dai soggetti direttamente ed immediatamente interessati e coinvolti: ma sono convinto che non esista scorciatoia alcuna a questa impegnativa prospettiva.
Solo così sarà possibile, io credo, sfuggire alla a dir poco discutibile e ancor meno accettabile alternativa che pare minacciosamente profilarsi: da una parte tra un informazione ridotta al solo “stile internet”, che si avvale di un contenitore nel quale spesso le informazioni non sono validate e verificate con il necessario livello di attendibilità, dall’altra un informazione “stile citizen journalist” nel quale le esigenze di natura professionale e deontologica finirebbero per rappresentare solo un optional.
Ma per rilanciare un’informazione degna di tale nome è necessario che tutti facciano la propria parte, in un panorama nel quale vari soggetti presenti anche sul mercato editoriale si preoccupano giustamente di costruire autovetture competitive o abitazioni all’avanguardia sul terreno dell’eco-compatibilità, ma nella loro funzione di editori sembrano prestare davvero poca attenzione alla qualità del prodotto.
Per tornare all’inizio e concludere: non sono mai appartenute alla mia cifra le categorie che considero del pessimismo e dell’ottimismo, inadeguate a rappresentare e interpretare una realtà tanto complessa quale quella della contemporaneità.
Oggi è davvero difficile, molto più difficile di ieri, decifrare i connotati e i confini che informazione e comunicazione assumeranno nel breve e lungo termine, al di là del fatto, che considero scontato, che esse finiranno per rivestire un peso ed un ruolo assolutamente centrali nella vita degli individui e dell’intera società.
Ma questa difficoltà a capire, ad immaginare il futuro, lungi dallo scoraggiarci, deve rappresentare un ulteriore stimolo a costruire il domani che ci attende: perché sarà proprio questo il discrimine sul quale si capirà se per il giornalismo, italiano e non solo, così come lo conosciamo, ci sarà una prospettiva di vita e di ruolo. Molto dell’esito di questa sfida, lo dobbiamo sapere, dipende proprio da noi giornalisti.