Roberto Zarriello, giornalista, saggista e docente di “Comunicazione digitale”, scrive di internet, nuove tecnologie e comunicazione per “Huffington Post”; coordina l’area “Regioni” di “Tiscali.it”; collabora dal 2003 con il “Gruppo Espresso”. Ha pubblicato: “Penne Digitali 2.0. Fare informazione online nell’era dei blog e del giornalismo diffuso”, “Social Media Marketing. Strumenti per i nuovi Comunicatori Digitali”. Nel 2015, ha ricevuto il Premio Giornalistico nazionale “Maria Grazia Cutuli” per la categoria “Web, editoria digitale”.
Il suo più recente lavoro, sulle nuove opportunità per i professionisti dell’informazione, è “Brand Journalism” (Ed. Centro di Documentazione Giornalistica, 2016).
Cos’è il Brand Journalism e qual è la sua origine?
Come il giornalismo sportivo, economico, politico, ecc., il brand journalism è un tipo di giornalismo che si occupa dell’impresa, ovvero di tutto ciò che ruota attorno a un marchio (brand, per l’appunto) con una precisa finalità: informare i lettori sulla storia dell’azienda, utilizzando gli strumenti e le regole proprie del professionista della notizia.
Il Brand Journalism, al contrario di quanto si possa pensare, non è una ‘creazione’ moderna ma la sua origine risale al 1895, quando un’azienda di macchine agricole pubblicò il numero uno di The Furrow, una sorta di Rolling Stones per gli agricoltori; e, ancora oggi, può contare su 2 milioni di lettori in tutto il mondo.
Quali sono i suoi criteri base e i principali strumenti di comunicazione?
Come spiegato sul libro, i criteri del Brand Journalism sono cinque: focalizzarsi sul pubblico; trovare una storia; essere credibili; utilizzare un linguaggio semplice; raccontare con le immagini; spostare l’attenzione dal marchio alla notizia.
Per quanto riguarda gli strumenti con cui sviluppare il brand journalism, da più amante che professionista del web, è ovvio che prediligo quelli che riguardano la rete: il magazine online e i social media, in primis. Ma si può fare giornalismo d’impresa anche sui media tradizionali (carta, televisione e radio).
È, dunque, un altro tipo di giornalismo?
Sì, come già accennato. Non, però, nel senso che si tratta di un giornalismo alternativo a quello tout court. Non è una nuova forma di giornalismo ma un giornalismo che sperimenta un nuovo campo, quello dell’azienda che non utilizza più intermediari per far parlare di sé ma canali propri, autofinanziati, regolati pur sempre dai principi che stanno alla base dell’informazione. Nel caso del brand journalism, per intenderci, spesso l’editore coincide con l’azienda: attenzione, però, il brand journalist non offre la propria professionalità per promuovere un bene o un servizio del marchio (anche perché non è mai coinvolto direttamente nelle vendite) ma per raccontare l’azienda, fornendo un servizio di pubblico interesse.
Ma il brand journalist non è in contrapposizione alla figura dell’addetto stampa?
No, sono due professionalità differenti. L’addetto stampa, come ben sappiamo, è il tramite tra il personaggio, l’associazione, l’azienda o l’ente pubblico di cui cura la comunicazione e i media tradizionali o digitali. Fa da ponte di collegamento. Il brand journalist, invece, non relaziona il committente con le testate, generando interesse; ma agisce direttamente sul brand magazine e si occupa non solo della scrittura del pezzo ma anche della sua diffusione e di generare traffico su di esso. Insomma, è un giornalista digitale a 360 gradi.
In Italia ci sono esempi importanti?
Al contrario dei Paesi anglosassoni, dove il brand journalism ha modelli importanti (McDonald’s, Coca-Cola e Red Bull, per citarne tre), in Italia gli esempi rilevanti sono ancora pochi ma il mercato, in tal senso, è in continua espansione. Tra di loro, vi consiglio di dare un’occhiata a un brand magazine ‘leggero’ ma strutturato bene: Mommypedia, il blog di Prénatal che parla alle mamme. Lì, infatti, potrete leggere post che, collocati all’interno di uno spazio aziendale, hanno lo scopo di condividere informazioni e consigli utili per affrontare i momenti della gravidanza e i primi anni di vita dei figli.
Per concludere, qual è il suo futuro?
Mentre negli USA il brand journalism è realtà, nel nostro Paese è ancora in fase sperimentale ma è destinato a diffondersi, perché cresce l’esigenza dei brand di raccontarsi e, al contempo, di attrarre su di sé l’interesse dei propri lettori/consumatori.
Gli strumenti della comunicazione contemporanea, infatti, permettono alle aziende/editrici di promuovere il racconto su di sé autonomamente, affidandosi ai professionisti della notizia che, però, devono avvertire la necessità di formarsi sui nuovi canali di trasmissione dei messaggi: i social media, innanzitutto.
In pratica, basta guardare alla rete come un enorme ‘buco nero’ che attrae su di sé il giornalismo ma è un’opportunità da conoscere al meglio. Da qui l’esigenza di scrivere un libro che, da un lato, racconta il cambiamento in corso; dall’altro offre spunti per farne parte in maniera attiva.