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Cassazione: le interviste pericolose

18/01/2005

Raccontare la verità non basta più al cronista per evitare una condanna per diffamazione a mezzo stampa. L'intervista può esporre il giornalista a gravi conseguenze anche se non ricorrono gli estremi del reato in sede penale
Per evitare la responsabilità risarcitoria non bastano continenza, verità e interesse pubblico. Se ci sono "accostamenti suggestionanti" e "toni sproporzionatamente sdegnati", il giornalista risponde in concorso con l'intervistato.
Il giro di vite è dettato dalla sentenza 23366/04 della III Sezione civile della Cassazione, depositata il 15 dicembre scorso. Per cui il cronista che si limita a riferire parole effettivamente dette dall'intervistato senza modificarle e senza esprimere commenti, non è detto che possa evitare la responsabilità civile per danni. Infatti, affinché possa parlarsi di legittima espressione del diritto di cronaca, sottolinea la III sezione civile della Cassazione, devono sussistere i seguenti elementi: "la verità (l'intervistato ha effettivamente esposto le affermazioni in questione, ndr); verità che non è rispettata quando, pur essendo vere le affermazioni riferite, ne siano, dolosamente o anche soltanto colposamente, taciute altre, idonee a mutare pesantemente il significato delle prime; ovvero quando, con il ricorso ad accostamenti suggestionanti di singole affermazioni dell'intervistato capziosamente scelte e/o a mutamenti dell'ordine di affermazione delle medesime, si pervenga ad una presentazione dell'intervista oggettivamene idonea a creare nella mente del elettore, od ascoltatore, una rappresentazione della realtà dell'intervista medesima falsa in tutto o in parte".
In poche parole, è a rischio di condanna il cronista che, magari, con l'uso di semplici aggettivi, dimostra di condividere l'opinione dell'intervistato, opinione ritenuta lesiva della onorabilità di qualcuno.
La sentenza riguarda due articoli, pubblicati da un quotidiano di Milano, relativi al processo al clan Mammoliti ('ndrangheta). Articoli ritenuti diffamatori nei confronti di un magistrato calabrese. Condannati al risarcimento danni, giornale, giornalista e le due donne intervistate (entrambe vittime della mafia e sotto protezione).
Questa sentenza è in controtendenza con quella del 2001, in cui la Cassazione (sentenza 37140 delle Sezioni unite penali) si era così espressa: in certe condizioni (neutralità e pubblico interesse), il giornalista che riporta fedelmente una dichiarazione diffamatoria, non è responsabile della violazione dell'onore e della reputazione dell'interessato, avendo esercitato il diritto di cronaca.

(g.c.)