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Come si scrive per i media? Ce lo spiega la ‘Grammatica del giornalismo’

14/07/2016
Scrivere o non scrivere? No, non è questo il problema. Bensì come scrivere, quali accorgimenti utilizzare e, soprattutto, come fugare quei dubbi  grammaticali, lessicali o stilistici che assalgono chi si accinge a redigere un pezzo giornalistico. Abbreviazioni, capoversi, controlli, concordanze, corsivi, costruzione delle frasi, didascalie, diffamazione, discorso diretto, frasi fatte, inizio e conclusione dell’articolo... E poi maiuscole, nomi e cognomi, nomi geografici, numeri, occhielli, plurali difficili, privacy, querele, rettifiche, scaletta dell’articolo, secondo capoverso, segreto professionale, sondaggi, stereotipi, verbali... Quando si deve andare a capo? Meglio scrivere acquarello o acquerello? Ricordiamo tutti come si utilizzano gli accenti acuti e gravi? E la ‘d’ eufonica serve o no tra due vocali diverse? Le dichiarazioni vanno in corsivo o virgolettate? Quali parole inglesi è meglio tradurre? Le norme che regolano la stampa e l’editoria valgono anche in caso di scoop?
Scrivere o non scrivere? No, non è questo il problema. Bensì come scrivere, quali accorgimenti utilizzare e, soprattutto, come fugare quei dubbi  grammaticali, lessicali o stilistici che assalgono chi si accinge a redigere un pezzo giornalistico. Abbreviazioni, capoversi, controlli, concordanze, corsivi, costruzione delle frasi, didascalie, diffamazione, discorso diretto, frasi fatte, inizio e conclusione dell’articolo... E poi maiuscole, nomi e cognomi, nomi geografici, numeri, occhielli, plurali difficili, privacy, querele, rettifiche, scaletta dell’articolo, secondo capoverso, segreto professionale, sondaggi, stereotipi, verbali... Quando si deve andare a capo? Meglio scrivere acquarello o acquerello? Ricordiamo tutti come si utilizzano gli accenti acuti e gravi? E la ‘d’ eufonica serve o no tra due vocali diverse? Le dichiarazioni vanno in corsivo o virgolettate? Quali parole inglesi è meglio tradurre? Le norme che regolano la stampa e l’editoria valgono anche in caso di scoop?
 
Le risposte (un migliaio) a questi e tanti altri dubbi possiamo trovarle nel volume ‘LA GRAMMATICA DEL GIORNALISMO – Come si scrive per i media’ di Luciano Santilli, giornalista professionista che ha lavorato nelle redazioni de il Mondo e L’Europeo, responsabile delle riviste Next e Web, direttore responsabile dei siti internet Mondadori, vicedirettore di Panorama e ora alla guida di Capital. Un manuale di consultazione indispensabile per chiunque voglia comunicare in modo professionale, edito da goWare (http://www.goware-apps.com/?s=santilli).
 
Per scrivere articoli di stampa destinati al grande pubblico bisogna valorizzare lo stile personale, ma facendo attenzione a regole, anche minute, che ci aiutano a comunicare con più immediatezza. Lo spazio non è infinito, l’attenzione del lettore nemmeno, quindi si devono sintetizzare le dichiarazioni di un’intervista rispettando il contesto. E tener conto delle leggi sulla stampa e la privacy… Parliamone direttamente con l’autore della Grammatica, Luciano Santilli.
 
Quando era vicedirettore di «Panorama», dicono utilizzasse un prontuario, un codice di buona scrittura, a uso interno, una sorta di «Come si scrive per Panorama». Ce ne vuole parlare?
Più precisamente c’era in origine un calepino di pochissime pagine, che con solennità mi fu consegnato il primo giorno di scuola, cioè al mio ingresso nella redazione. Come per molti testi anonimi e preziosi, la paternità del ‘libriccino’ era avvolta da leggenda; alcune voci puntavano in direzione di un esperto caporedattore ormai in pensione. Più piccolo di un Moleskine, il calepino si occupava di maiuscole, minuscole, virgolette… Utilissimo per evitare il disordine nel giornale. L’omogeneità, del resto, era nel dna di Panorama, nelle raccomandazioni del suo storico direttore Lamberto Sechi, e si estendeva alla costruzione dell’articolo. Ma per questo secondo e decisivo aspetto niente era scritto, c’era solo la memoria di colleghi che avevano lavorato con quel grande giornalista (come il sottoscritto a inizio carriera), la cui efficacia era pari all’avversione per l’enfasi. Aveva richieste implacabili, qualche piccola impuntatura, che costavano a chi scriveva più fatica, e la conclusiva soddisfazione di un testo scorrevolissimo.
 
Ha avuto buoni maestri…
Perciò qualche tempo fa ho pensato: bisogna non disperdere quel tesoro professionale, arricchirlo se possibile. E ho cominciato a mettere da parte appunti.
 
Non c’era, e non c’è, il rischio di rendere tutto monotono?
Timore legittimo, ma non sono gabbie per la creatività dei giornalisti la Style Guide dell’Economist, loStylebook dell’Associated press, il Manual of Style and Usage per i redattori del New York Times e altri fra i migliori volumi del genere, che ho consultato, trovando conferme e suggerimenti. Mi sono ricordato di tanti altri punti controversi nella vita quotidiana di redazione. Anni fa avevo fissato una prima parte di argomenti, facendo fascicolare le fotocopie per gli aspiranti giornalisti che seguivano un master dove insegnavo.
 
Oggi è alla guida di «Capital» e il suo «Santillarium» è diventato volume. Contiene regole che, come spiega nella prefazione, servono a evitare sbagli e modelli di comunicazione poco chiari. Qualche esempio?
L’intento non è mettere le redini ai giovani colleghi, però ogni caposervizio sa che bisogna spingerli a lavorare su inizio e struttura dell’articolo, sul controllo delle notizie e delle fonti: in appendice alla Grammatica ci sono infatti le norme deontologiche che dobbiamo rispettare, e non soltanto per evitare querele e denunce. Purtroppo di giornalisti esperti con tempo sufficiente per insegnare, per spiegare, mentre passano un pezzo insieme al giovane autore, ce n’è sempre meno.
 
Le redazioni si riducono all’osso, ci sono i prepensionamenti.
Riconosciamo con franchezza: certe redazioni erano mongolfiere, di qualche collega la firma compariva solo sulla busta paga. Purtroppo, invece di correggere quell’anomalia, svariati editori hanno pensato a prendersi la rivincita e tagliano l’indispensabile, quindi la qualità; credono che i buoni giornali si scrivano da soli, che i lettori non si accorgano dello scadimento. Idea bizzarra, nell’età della qualità totale richiesta per ogni prodotto, dalle auto al cibo. La sorte del business comunicazione si gioca proprio sul nodo della qualità. «Tanto la gente non legge più», dicono. Ma non si legge il superfluo, per esempio quel che è mal scritto: perché comprare un giornale, o abbonarsi a un sito di qualità, se occupa sei/otto pagine sullo stesso argomento ed è infarcito di prosa arruffata, gergale, come blog di dilettanti?
 
Che cosa propone?
L’ovvio: gli editori devono metterci le risorse, i giornalisti devono metterci l’impegno anzitutto nella scrittura. Basta un algoritmo a confezionare finti giornali con quel che passa il Web, rubacchiando qua e là brani interi: è l’abuso di certi motori di ricerca. Ma i giornalisti servono e serviranno, sempre che nei media si rinforzi il codice distintivo della specie.
 
E qual è?
L’affidabilità, che diventa credibilità; e l’accuratezza nella scrittura, che diventa comprensibilità. Tutte le grandi testate del mondo, ripeto, si sono date norme stilistiche stringenti. Ho pensato di trasformare un po’ di esperienza, sia personale sia raccolta in svariate redazioni, in raccomandazioni scritte. Il tono della Grammatica, come di tutte le grammatiche, risulta un po’ assertorio. Ma ogni suggerimento è motivato.
 
Quali sono le regole della grammatica italiana da conservare?
Quelle che insegnano a scuola, e pure quelle della sintassi. Non è passatismo, bisogna evitare sia l’italiano ingessato sia quello «in maniche di camicia», come diceva  Giosue’ Carducci (che si scrive senza accenti: sempre verificare nomi e cognomi). Certo, un articolo non è un tema in classe, immediatezza e altri –ezza sono indispensabili. I giovani colleghi possono perciò ignorare gli esempi di penne famose che amano lo svolazzo, la prosa fiorita. Devono scrivere in modo efficace, che è sempre elegante. I giornali, di carta e online, sono prodotti industriali, devono allargare l’audience per sopravvivere. Bisogna farsi ammirare per la scelta di verbi e sostantivi chiari, non per la ricerca di aggettivi e avverbi reboanti. Poi la sera, da soli, ognuno può scrivere, per sé e i propri cari, un capolavoro nello stile preferito.
 
La grande letteratura non vale più come esempio? Non aiutano le buone letture?
Certo che aiutano. Ma ci si accorge che colorismo, aggettivazione ed effettacci sono rari in Guerra e pace di Lev Tolstoi, L’isola del tesoro di Robert Louis Stevenson, La scomparsa di Maiorana di Leonardo Sciascia, o in quel fenomenale esempio di cronaca che è il resoconto della morte di Cristo dell’evangelista Matteo, 20 righe scarse per la svolta centrale della storia occidentale. E nei romanzi di Gabriele D’Annunzio, che di aggettivi sono invece zeppi, mai si trova «uno a uno», saltando la prima a, cioè una sciatteria. Perché mai nei titoli di testa dei tg si è dovuto leggere «20,30» anziché 20.30? I minuti non sono mica decimali. Insomma, la buona comunicazione, come la migliore letteratura, arriva con il lavoro di lima.
 
Lei scrive, un po’ provocatoriamente: «Le agenzie di stampa, dove lavorano i metalmeccanici dell’informazione». Che significa?
Non è provocazione, è ammirazione. Meglio la capisce chi, della mia età, ha mitizzato quanti creano valore e vengono mal ripagati. Il lavoro dei giornalisti d’agenzia è indefesso, tempestivo, decisivo nella ricerca e nella selezione delle notizie. Eppure, certi quotidiani, tg, radio, siti si limitano a riciclare senza citare la fonte, neanche per le news più rilevanti. Il copia-incolla facilita tutto, un tempo con i lanci di agenzia bisognava almeno fare la fatica di riscrivere.
 
Giornalese: «Si chiama così lo stile di chi crede che i fatti non siano abbastanza interessanti, che non si possano raccontare con la lingua di tutti, e quindi pompa le parole come camere d’aria». Che cosa intende?
Il giornalese è fratello del burocratese: roba poco o punto comprensibile. Il giornalese ama le esagerazioni, ogni morto ammazzato diventa «un massacro», un tamponamento «un inferno sull'autostrada», un diverbio «uno strappo». Il giornalese è infarcito di frasi fatte, con i primi caldi si pensa a «staccare la spina»: troppo banale andare in vacanza. Sono esempi da titoli di quotidiani.
 
Anche le parole astratte appesantiscono l’articolo…
Ricordo la raccomandazione dei vecchi caporedattori: qui non si scrive di problemi, ma di personaggi, di storie.  Si legge invece: «Il tema discusso ieri nasce dal problema…» (due astratte); «la situazione è insostenibile e pone la questione…» (altre due astratte). Il lettore ha già umettato il dito per girare pagina. «Il fenomeno della corruzione» è un’astrazione doppia, non basta appiccicarci una bella statistica messa in giro da fonti giudiziarie: chi mai potrà contare i corrotti? Se è una stima sulla base del numero di inquisiti, non va presa sul serio. Meglio raccontare storie vere di corruzione, anche minute, con il dove e il come: il lettore dedurrà che non sono eccezioni. Certo che le storie bisogna cercarle, mentre per i problemi e le statistiche basta una pigra ricerca su internet o qualche conferenza stampa istituzionale.
 
Altri esempi?
Astratto e generico: l’«emigrazione assume dimensioni bibliche». Concreto: fra quanti sono sbarcati il giorno x, Questo e Quello sono profughi di guerra, Quest'altro e Quell'altro sono persone che cercano una vita migliore in Europa. E si descrivono viaggio e speranze di tutti. Così si dà modo al lettore di valutare se le anime belle delle porte tutte aperte, e i politici duri delle porte sbarrate, parlano conoscendo la realtà. C’è un altro rischio nelle parole astratte: sono dolcificanti. «Dopo il rallentamento (astrazione) delle vendite si pone il problema (astrazione) degli esuberi (astrazione)…»: questo è linguaggio fumoso da addetti stampa; un giornalista scrive che le vendite vanno male e quell'azienda intende licenziare.
 
Quali sono i passaggi fondamentali di un’intervista, come si prepara in stile Santillarium?  
Anzitutto il cappello: sempre breve. Non deve servire a enfatizzare l’impresa, con frasi tipo «la prima intervista rilasciata». Se di scoop si tratta, basta segnalarlo nella titolazione. Il cappello serve a dire: chi è Tizio e perché viene intervistato (per l’autorevolezza, la carica ricoperta, il ruolo in una vicenda); perché in quel momento; perché su quell’argomento. Non si fanno interviste sottovoce per poi riscriverle con domande che sembrano ruggiti. Siccome una dichiarazione banale nasce spesso da una domanda inutile, l’intervista va preparata con la scaletta. Però è vero che alcuni intervistati non sanno che dire: il bravo giornalista li fa diventare brillanti stuzzicandoli su molti argomenti. Fondata quindi la battuta: un'intervista è un articolo rubato.
 
E al momento di scrivere?
Quasi quasi sempre bisogna ricomporre la sequenza di domande e risposte, rispettando il senso complessivo del colloquio. Una sbobinatura, con una spruzzata di punteggiatura e qualche accorciamento, non è un’intervista. In un’intervista ci si dimentica del tu (e gli amici si fanno intervistare da qualcun altro). Soprattutto, ricordarsi: niente che sia lungo regge alla prova sbadiglio. E qui forse ci siamo un po’ dilungati.