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Dallo sceneggiato alla fiction: sessant’anni di storia Tv

23/11/2015
Biagio Proietti (sceneggiatore, regista e scrittore) con Maurizio Gianotti (docente di Teoria e Tecnica del linguaggio radiotelevisivo) ha pubblicato “Il segno del telecomando” (Ed. Rai-Eri), storia della nascita e dell’evoluzione dello “sceneggiato” (l’attuale “fiction”), dalle origini (1954) fino al 2014. Il libro si divide in due parti: una storica, linguistica e analitica; l’altra con le testimonianze degli attori, degli autori e dei registi di questo genere televisivo.
Per quale motivo Lei, che ha sempre fatto il romanziere e lo sceneggiatore, si è cimentato in un saggio?
Più di 50 anni della mia vita sono stati dedicati alla televisione e alla Rai, tra sceneggiati e film Tv, come regista, autore, conduttore, documentarista. Ora ho scritto questo libro-romanzo, dove non si muovono solo le opere televisive ma, soprattutto, tutte le persone che hanno fatto e continuano a fare la televisione: autori, registi, attori, produttori. Come? Facendoli parlare di quello che volevano
fare, di quanto sono riusciti a realizzare, dei loro sogni, desideri, illusioni, gioie e dolori. Spesso abbandono il ruolo di storico e intervengo con i miei ricordi, con ritratti di amici che hanno lavorato con me e hanno lasciato un segno: come Walter Chiari e Alberto Lupo.
Com’è nata la collaborazione con Gianotti?
Sono amico di Maurizio Gianotti e conosco bene il suo lavoro. L’ho coinvolto in questa avventura per le ricerche nell’immenso patrimonio delle Teche Rai di tutte le testimonianze che potevano servire a questo racconto. Abbiamo lavorato bene in coppia e siamo contenti del risultato, anche perché abbiamo ricevuto il prestigioso Premio Scanno.
Si sente più testimone o più protagonista dei “tempi” televisivi?
Per me entrambi: di sicuro un testimone per quanto riguarda gli anni Cinquanta. Allora ero un giovane attento; fino agli  anni recenti nei  quali, per vari motivi, non ho più lavorato per la Tv. “Il segno del telecomando” è un lungo viaggio nel mondo della televisione per scoprire come eravamo e come siamo diventati. Con Gianotti ho cercato di far diventare protagonisti anche i lettori-
spettatori, che devono integrare quello che scriviamo, con i ricordi della loro vita. Per questo, la
parte che entrambi preferiamo è quella rivolta al passato, agli anni del bianco e nero, quando la Rai
ebbe la geniale intuizione di fare una televisione pedagogica, per insegnare a una popolazione a leggere i classici e i grandi capolavori della letteratura mondiale. Alzi la mano chi non ha cominciato a comprare i mitici ed economici libricini della BUR sui classici russi che la televisione aveva fatto conoscere e amare, anche per merito degli splendidi attori che allora brillavano sul piccolo schermo. Allora la Rai era un vero ponte verso la cultura.
Qual è l’opera televisiva cui si sente più legato? Perché?
La risposta è complessa: per la popolarità che mi ha dato sicuramente “Dov’è Anna?”, per averlo scritto anche in versione romanzo; ma anche “Madame Bovary” di Flaubert. È stato eccitante lavorare su un capolavoro, con una forma di lettura innovativa che ha saputo restituire sul teleschermo la magia del romanzo.  
Una curiosità: qual è il libro a cui si sente più legato e perché?
Più che un libro vorrei citare due autori che hanno influenzato la mia professione: Raymond Chandler e Dashell Hammett. Del primo sono riuscito a realizzare per la radio – quando esisteva la prosa radiofonica – “Il lungo addio” con Arnoldo Foà che dava voce al mitico Philip Marlowe; mentre il secondo è stato il riferimento per una pièce teatrale  di successo. Vorrei aggiungere il nome di Edgar Allan Poe che mi ha permesso, ispirandomi ai suoi racconti, di fare un’opera particolare, scritta con il regista Daniele D’Anza.