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Diritto e deontologia professionale: alcune regole per un giornalismo ‘a norma di legge’

30/05/2014
 
In un paese come l’Italia si è soliti pensare che non vi sia alcun controllo, che ognuno possa scrivere ciò che vuole, senza rischiare severe sanzioni. Ma non è così. Il giornalista, per fare bene il proprio mestiere, deve andare alla ricerca di notizie, non perdendo però mai di vista le regole e i limiti tesi a bilanciare il diritto di informazione con altri diritti e interessi, quali la reputazione, la privacy, il buon costume.
 
Esistono innumerevoli casi di cronaca che ci ripropongono continuamente la tensione tra ciò che può e non può essere detto o scritto, tra ciò che è corretta informazione e ciò che è insinuazione o diffamazione, tra ciò che è giornalismo e ciò che è pura invenzione. Le norme in materia sono complesse e di difficile interpretazione: di fatto è sempre più difficile far bene il giornalista senza finire sotto processo.
 
A spiegare alcune regole per gli addetti al “quarto potere” ci hanno pensato tre professionisti del diritto dell’informazione: Caterina Malavenda (avvocato esperto di diritto dell’informazione e della comunicazione), Carlo Melzi d’Eril  (avvocato esperto di diritto dell’informazione e di internet) e Giulio Enea Vigevani (professore di Diritto costituzionale e Diritto dell´informazione e della comunicazione).
I tre autori si sono confrontati su alcuni temi molto cari a noi giornalisti e hanno dato vita al pratico manuale "Le regole dei giornalisti. Istruzioni per un mestiere pericoloso", un vademecum che analizza la complicata deontologia professionale e le norme giuridiche che regolano il mestiere, materia che costituisce l’argomento del libro.
 
L’informazione on line e non solo
 
Quando parliamo di informazione on line, di frequente si sottolinea il connubio tra libertà e responsabilità. Oggi spesso la rete viene considerata come un mondo dove sia possibile trovare la massima libertà di espressione. Da un certo punto di vista potrebbe anche essere vero: avere la possibilità di esprimere idee e opinioni a un pubblico virtualmente incalcolabile. Ma la rete non è affatto un mondo senza regole, si incorre facilmente in illeciti, dalla diffamazione alla minaccia, dallo stalking alla violazione della privacy, dove si rischia di essere processati. Chiediamo allora all’ Avvocato Carlo Melzi d’Eril, professionista del diritto dell’informazione e co-autore del libro, di chiarirci un po’ qualche idea.
 
I limiti della libertà di espressione. L’articolo 21 della Costituzione garantisce a tutti ‘il diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero’. Fino a che punto ci si puo’ spingere e dove ci si deve fermare, soprattutto quando si ha a che fare con il pensiero in rete? Quando possiamo parlare di libertà e come possiamo rispettare le restrizioni del predetto articolo 21?
 
Cercare i limiti alla manifestazione del pensiero in rete sotto un certo profilo richiede una capacità molto peculiare: quella di trovare il simile nel dissimile, ovvero la capacità di scegliere quali disposizioni pensate in tema di stampa possano essere applicabili all’informazione in rete. Cerco di spiegarmi, prendendo il discorso un po’ “alla larga”. Usciamo subito da un equivoco: possiamo escludere che il “mondo” di internet sia paragonabile a una prateria senza norme.
Non si può non notare che oggi ogni bene giuridico - per la tutela del quale viene posto un limite alla libertà di espressione esercitata con i tradizionali mezzi di comunicazione - trova analoga tutela, quando le modalità di aggressione vengono poste in essere “a mezzo internet”. Per limitarci solo a qualche esempio: la lesione di onore e reputazione diffusa in rete integra il reato di diffamazione (art. 595 comma 3 Codice Penale); l’offesa al pudore il delitto di pubblicazioni oscene (art. 528 Codice Penale); l’illecito trattamento di dati personali la relativa disciplina sanzionatoria (art. 167 Decreto Legislativo n. 196 del 2003); la violazione dei segreti di Stato il delitto di rivelazione (art. 261 Codice Penale); la divulgazione di atti giudiziari segreti o non pubblicabili rispettivamente il delitto di cui all’art. 326 Codice Penale o la contravvenzione di cui all’art. 684 Codice Penale.
Dunque, i problemi odierni non nascono da una sospettata ‘zona franca’ penale in internet, ma da singole questioni complesse che riguardano l’applicazione di puntuali disposizioni in ambiti specifici e circoscritti. E, ancor più precisamente, tali questioni si incentrano sempre più di frequente su un interrogativo che costituisce una sorta di comune denominatore in materia: la possibilità o meno – e, se sì, con quali eventuali correttivi – di applicare la disciplina in tema di stampa a condotte analoghe realizzate a mezzo internet.
 
È quindi possibile e opportuno applicare la disciplina della stampa a internet?
 
Cominciamo col dire che in tema di limiti alla manifestazione del pensiero, il legislatore nazionale ha sempre posto, accanto ad una normativa generale, una disciplina ad hoc per quanto riguarda gli stampati. Infatti, sia la disciplina costituzionale che quella ordinaria sembrano indicare l’esistenza di una sorta di doppio piano, o livello: basti considerare, per l’articolo 21 della Costituzione, il primo e ultimo comma, da una parte, e, dall’altra, i commi centrali; allo stesso modo si comporta la disciplina “ordinaria” in tema di diffamazione, con l’articolo 595 del Codice Penale, su un versante, e gli articoli 13 e 16 della legge stampa e 57 Codice Penale, sull’altro.
Inoltre, Internet, come sappiamo, è un potente strumento attraverso il quale (non solo, ma anche) comunicare il pensiero. Anzi, si può dire che oggi sia lo strumento principale, perché il più diffuso, il più facilmente utilizzabile, il più efficace.
Sorge così il “problema” di regolare in qualche modo tale ponderosa mole di informazioni, tanto che una delle tentazioni ricorrenti da parte dei giudici è proprio quella di applicare le disposizioni pensate per la stampa alla rete: si tende cioè a pensare che il resoconto di un fatto di cronaca o l’espressione di una critica diffusi su un sito internet non si discosti poi molto da analoga attività consegnata allo strumento cartaceo. Per di più, se una volta gli stampati erano proprio il tipico mezzo per diffondere il pensiero, oggi tale mezzo viene trovato tra le varie e diverse possibilità che offre la rete.
Si tratta però di una soluzione semplicistica: alcune regole potrebbero essere applicate con un uso attento dell’analogia (penso alla disciplina in tema di sequestro), per altre vi è un esplicito divieto costituzionale (mi riferisco ai reati espressamente previsti per la stampa che non possono essere estesi ad un fenomeno come l’informazione telematica, che non rientra nella definizione di stampa prevista dall’art. 1 della legge n. 47 del 1948, come l’art. 57 c.p. sulla responsabilità del direttore).
 
Nel libro si parla anche di limiti impliciti. Cosa si intende?
 
La libertà di espressione va incontro ad una serie di limiti, tutti previsti dalla Costituzione. Accanto al limite del buon costume, esplicitamente menzionato dallo stesso articolo 21, ne esistono altri. Il giornalista quando racconta qualcosa può entrare in conflitto con altri beni giuridici di rilevanza costituzionale. Citare il nome di una persona violandone la riservatezza, rivelare un segreto, esprimere un’opinione corrosiva; si tratta pur sempre dell’esercizio della libertà di espressione che può, nello stesso momento in cui si manifesta, ledere “interessi” distinti dal buon costume, e tuttavia tutelati dalla Costituzione (si pensi alla riservatezza, alla reputazione, o alla proprietà intellettuale). Limiti, dunque, “implicitamente” ricavabili dal tessuto costituzionale.
 
Quali sono le regole e le norme che un buon giornalista deve rispettare per svolgere al meglio la propria professione?
 
Le regole sono tantissime ormai. Prendiamo solo un ambito in particolare, uno di quelli la cui disciplina è stata più di recente introdotta nell’ordinamento, ovvero quello del trattamento dei dati personali. Questa è la “regola base”: il giornalista può diffondere, senza dover chiedere il consenso, tutti i dati personali che siano indispensabili per comprendere una notizia di interesse pubblico, purché siano corretti. Il “buon giornalista” (o almeno quello che segue quanto l’ordinamento prescrive) non è colui che raccoglie e pubblica la maggior quantità di informazioni su un avvenimento. È invece colui che sa in primo luogo capire qual è la notizia di interesse pubblico e, in un secondo momento, è in grado di distinguere e selezionare i dati indispensabili per la sua comprensione, che sono dunque pubblicabili, da quelli superflui, che invece non lo sono. Raccontare correttamente una notizia significa rimanere il più possibile “vicino” ai fatti di interesse pubblico, spiegarli in modo chiaro e non indugiare su particolari non fondamentali. L’interesse pubblico è spesso la matrice del bilanciamento fra beni giuridici naturalmente configgenti come sono il diritto di cronaca e la riservatezza.
 
Diffamazione: il confine tra lecito e illecito.
 
È difficile tracciare un confine netto poiché il diritto dell’informazione, più di altri settori, coinvolge aspetti che variano molto in funzione delle “sensibilità” del singolo giudice. In linea di massima, anzitutto, bisogna chiedersi se quanto si sta comunicando è offensivo, ovvero se lede la reputazione, cioè la buona fama di cui ogni uomo gode presso il contesto sociale di riferimento. Per cercare di esemplificare un po’, si può affermare che è certamente offensivo attribuire un comportamento illecito; non solo reati, ma anche illeciti civili e amministrativi. Allo stesso modo sono da ritenersi offensivi tutti i comportamenti ritenuti socialmente sconvenienti in un certo tempo e in un certo luogo. Il giornalista, tuttavia, come noto, può raccontare fatti offensivi, purché siano veri, di interesse pubblico e con una forma civile, ovvero privi di insulti gratuiti. Quanto alle opinioni critiche, il discorso è in parte diverso. Il parametro della verità qui non può essere utilizzato perché le opinioni non possono essere predicabili di verità o falsità. Per non essere punito, quindi, sarà “sufficiente” (ma spesso non è affatto facile tenersi su quella china) che il giornalista tratti di un argomento di pubblico interesse con espressioni non inutilmente ingiuriose.
 
Spesso vengono pubblicate immagini lesive della dignità della persona. In base alla sua esperienza, ci puo’ citare qualche esempio?
 
Il panorama è piuttosto variegato, poiché il fenomeno è disciplinato da disposizioni contenute in vari testi normativi. Solo per fare alcuni esempi: come si è accennato prima, a tutela della riservatezza è vietata la pubblicazione di qualunque dato personale non indispensabile per far comprendere una notizia di interesse pubblico, quindi le foto emblematiche sono sempre un po’ a rischio. Sono poi del tutto bandite le foto segnaletiche, quelle di persone in evidente stato di detenzione o con manette ai polsi (salvo eccezioni come la necessità di segnalare abusi o per fini di giustizia o di polizia) o quelle di persone vittime di reati sessuali. Ancora, non sono pubblicabili le immagini “catturate” mentre la persona si trova in luoghi di privata dimora o in istituti di cura. E infine è altresì vietata la diffusione dell’immagine di minori protagonisti di fatti di cronaca a meno che ciò non sia nel loro obiettivo interesse.
 
‘Un professionista dell’informazione deve essere un bravo segugio, un buon analista e avere una visione d’insieme che solo la continua attività di reperimento di fonti e documenti puo’ garantire […]’. Perché il giornalista è un mestiere davvero pericoloso?
 
Un mestiere pericoloso per via delle ormai numerosissime regole che lo disciplinano. Quindi il primo problema è quello di orientarsi all’interno di questo ginepraio. Inoltre, tali regole sono spesso assistite da sanzioni di carattere penale, civile, amministrativo e deontologico, a volte assai afflittive. Col risultato che con una sola condotta il giornalista può trovarsi a violare più disposizioni e a dover subire le relative salate conseguenze. Ad esempio con un medesimo articolo si può commettere una diffamazione e una violazione della riservatezza e ciò può quindi comportare l’applicazione di una pena (anche detentiva), la condanna a un risarcimento, l’inibitoria da parte del Garante e la sanzione deontologica inflitta dall’Ordine. Per cercare di evitare il più possibile tali rischi non c’è che cercare di conoscere, almeno a grandi linee, la disciplina che regola l’attività giornalistica e, dunque, mai come oggi risulta d’attualità per chi vuole fare questo mestiere l’ammonimento gramsciano: “studiate, studiate, studiate”.