Qui di seguito, una parte della testimonianza: «Sono stato un giornalista della portatile, come Indro Montanelli, ma molto meno valoroso di lui, che ci lavorava perfino durante la rivolta ungherese del ’56; e lo sono tuttora, perché non ho mai palpeggiato un computer. Ma di storie attraversate, tante, in questi settanta di testate (trentotto, circa).
Un giorno della fine ’50, disoccupatissimo, passando davanti alla redazione parigina di “Ici Paris”, ebdomadario allora lettissimo dalle donne e ben lontano dalla satira, dove non mancava mai un paginone con la cronaca commovente di una coppia traboccante di felicità, che non molto tempo dopo naufraga nel crimine, mi viene un’idea veramente geniale: salgo (niente video o metal detector), entro e chiedo di parlare col Direttore.
C’era al suo posto, un navigato caporedattore che trova subito un modo eccellente per liberarsi di me e della mia petulante richiesta di collaborazione, nonostante il mio francese di allora, avesse più buchi di un Emmenthal: - Caro collega, non abbiamo nessuno, in Italia, mandami corrispondenze appassionanti, ma ricordati: bisogna far piangere sempre! - Uscii di là raggiante e subito, dopo Modane, mi misi ad annusare l’aria in cerca di cronache da far piangere milioni di adorabili lettrici di “Ici Paris”.
Ma a quel tempo l’Italia era in penuria di nera e io volevo battere il ferro. Nella cronaca della “Stampa” di Giulio Debenedetti scoprii il mio caso: un vedovo, nel cimitero di Collegno, a ogni anniversario del suo matrimonio portava un gran mazzo di rose sulla tomba di una signora sconosciuta, dove scoppiava in rumorosi singhiozzi. Pedinato e interrogato rispose con lucidità di ritenere proprio quella la tomba della moglie, in realtà sepolta nel cimitero di S
assi, a Torino. Una storia davvero da far piangere. “Ici Paris” non rispose».