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Per concludere, intendo segnalarvi che il gruppo di lavoro PO non si è fermato al Manuale, ma ha proseguito nel suo percorso volto a dare sempre più spazio a un’informazione corretta e priva di pregiudizi, nella convinzione che occorre trovare “le parole giuste” quando si parla di violenza e femminicidio, mettendo al bando tutte le espressioni fuorvianti che attenuano o addirittura giustificano la gravità del fatto, quali “delitto passionale”, “raptus”, “pista sentimentale”, “gelosia”. Per questo, e anche per rendere più attuale ed esaustivo il decalogo dell'IFJ (International Federation of Journalists) che peraltro condivide, propone un Osservatorio permanente dell’Ordine Nazionale dei Giornalisti, con una mail dedicata dove raccogliere segnalazioni sia di “cattive” che di "buone pratiche". Quindi, tutte le volte che sui mezzi d'informazione si parla di professioniste che rappresentano un'eccellenza nel loro settore di competenza, è doveroso prenderne atto e diffondere la notizia. La mail alla quale inviare le segnalazioni è: pariopportunita@odg.it».
Passiamo ora a parlare del giornalismo al femminile legato allo sport. Essere giornalista sportivo non sempre è facile. Se sei donna, ancora di piu’. Spesso la donna giornalista viene considerata come ‘meno competente’ rispetto al collega uomo, perché forse ritenuta meno appassionata di sport. E di esempi ne abbiamo parecchi. Un esempio tra tanti. Inter-Milan, partita di andata di Campionato 2015/2016, la giornalista Mikaela Calcagno si è sentita rispondere in maniera ‘accesa’ dall’allenatore del Milan in merito a una scelta tattica. Infatti, dopo il derby Inter-Milan la giornalista aveva intervistato il tecnico rossonero chiedendo il perché di una sostituzione. Domanda alla quale si è sentita rispondere: “Perché io faccio l'allenatore e lei la presentatrice".
- Domanda. Ma il tecnico avrebbe risposto in egual modo anche se il giornalista fosse stato uomo? Anche a voi sono capitate situazioni di questo tipo? Come avete reagito e cosa ne pensate al riguardo?
Sabrina Gandolfi (giornalista e conduttrice RAI Sport): «Non credo nei "titoli" declinati al femminile al fine di rendere la comunicazione più rispettosa del genere. Credo invece da sempre che il rispetto nasca principalmente dalle stesse donne. Troppo spesso si commette l'errore di guardare con diffidenza alla collega che ottiene una promozione o al capo donna. La consapevolezza del proprio essere è la chiave di tutto, ma ritengo sia altrettanto importante partire da qualche parte, in qualche modo, per cui dal principio "quote rosa" ad altri strumenti come il linguaggio, tutto serve per fare quel passo che conduca alla disinvoltura nel mondo del lavoro, alla serenità che non pone più domande sul sesso di appartenenza».
Irma D’Alessandro (giornalista e conduttrice Sport Mediaset): «Non mi è mai capitato, non ho mai dovuto affrontare situazioni di questo tipo in una maniera così palese. Credo anche grazie al fatto di avere una carriera divisa in più ruoli: inviato, conduttore, desk; quindi difficilmente identificabile come pura e semplice ‘presentatrice’.
Sull’episodio specifico, credo sia stata una brutta pagina di televisione e di educazione ma non l ‘unica. Ricordo una risposta molto scortese di Sinisa Mihajlovic, allenatore, a Vera Spadini , inviata di Sky.
In casi del genere,in attesa che ‘il sistema’ intervenga in tua difesa, l’unica arma immediatamente a disposizione è ‘avere l’ultima parola’ e mettersi sempre in condizione di averla. A mio parere, abbozzare per dimostrare ‘freddezza’ o ‘self-control’ può venir scambiato per inadeguatezza».
- Perché la donna viene spesso sottovalutata e quali sono, secondo voi, gli strumenti per cambiare questo immotivato ‘dogma’?
Sabrina: «Mi è capitata la scortesia, ma mai legata al fatto di essere donna (tranne da parte di qualche presunto tifoso). Sto per ripetermi, ma gli attacchi peggiori riferiti ad aspetto e affini, li ho ricevuti da donne. Gli uomini tendenzialmente, nel momento esatto in cui colgono la tua preparazione, cessano persino i propri pensieri sessisti. Le donne lottano ancora troppo tra loro per farlo contro un malcostume, una pessima tradizione.
Non mi sono mai sentita sottovalutata, ma so che capita a molte donne di frequente. Lo strumento principale per combattere questa stupida consuetudine è iniziare a lavorare sui bambini, sul loro percepire l'altro sesso e il proprio. Si sparecchia maschi e femmine, si fa sport entrambi, si coltivano le ambizioni di ciascuno, in egual misura, aspettativa e passione. Solo un ragazzo che cresce in una famiglia che educa alla parità di genere, consegnerà al mondo un essere umano, uomo o donna che sia».
Irma: «La ‘rivoluzione’ per cambiare il sistema è lenta ma progressiva. E comunque è un fatto di proporzioni: ci vorrà ancora tempo perché le donne in questo mestiere nei posti di comando e ruoli apicali, abbiamo la maggioranza, in termini di numeri, rispetto agli uomini. A Mediaset Sport, però, siamo messi piuttosto bene: i 2 migliori e più stimati inviati sul calcio internazionale (materia storicamente di dominio maschile) sono donne, il caporedattore centrale è una donna».
Anche la cronaca ha le sue ‘divergenze al femminile’. Non solo i fatti, ma anche le parole e le immagini che le accompagnano sono importanti per la costruzione delle notizie. Spesso, quando a fare notizia sono le donne, si assiste a un uso delle parole approssimativo o addirittura improprio. E ancora di piu’ nel giornalismo e in generale nel mondo dei media è importante che si colmi la lacuna di cultura e linguaggio di genere.
Annamaria Levorin (giornalista RAI e conduttrice del Tg3 nazionale), come si comporta la stampa al riguardo? Che tipo di linguaggio viene utilizzato oggi dai media? Perché il linguaggio diventa importante per definire l'immagine della donna?
«Anzitutto perché la violenza di genere è un problema culturale, dunque anche una questione di linguaggio: è attraverso la lingua, le metafore usate nel linguaggio comune, che prendono vita modelli culturali e stereotipi. E, come è noto, i media giocano un ruolo determinante nella formazione di un sentire comune, nella rappresentazioni di immagini e stereotipi, nella loro diffusione nel sociale. Basti pensare a come spesso la cronaca sulla violenza sulle donne viene narrata da quotidiani, telegiornali e nei talk show. A cominciare dalla descrizione dell’autore della violenza: ‘Ha agito in un raptus di gelosia’…‘Era depresso’….’Si sentiva tradito’…’Non accettava la separazione’… ‘Un delitto passionale’. Le parole pesano: Sono tanti gli errori del lessico giornalistico che, più o meno consapevolmente, portano ad una lettura talvolta giustificatoria del femminicidio, che finisce per essere derubricato ad una “reazione istintiva” dell’omicida ad una provocazione. Di contro è sulla vittima che la cronaca abbonda spesso di particolari legati al suo aspetto fisico, tanto inutili quanto pericolosi. Potrei citare una luna serie di esempi, ma direi che basta un fatto per descriverne complessivamente la portata: pensiamo al caso Pistorius, l’atleta paralimpico che nel 2013 uccise la fidanzata nella propria abitazione. La vittima, la modella Reeva Stenkamp, venne sbattuta da subito in prima pagina con aggettivi e pose scelte ad hoc per descriverne l’avvenenza: una selezione di scatti che ne ritraevano le curve, senza alcun rispetto per la vittima. Servizi talvolta farciti di particolari cruenti, scabrosi, futili e deontologicamente scorretti, incoraggiati da line e autori che puntano a fare audience, a dispetto dell’etica e della delicatezza che si dovrebbe sempre a un fatto che ha al centro una donna che ha subito violenza…».
Sempre riguardo all’importanza del linguaggio, nel trattare alcune argomenti piu’ delicati, soprattutto a carico di donne minorenni, è stata utilizzata dai media la definizione “le baby squillo dei Parioli”. Qui manca la tutela dell’immagine del minore e soprattutto viene messo in secondo piano il ruolo degli uomini che ‘sfruttavano’ queste ragazze. Annamaria, questa è cattiva informazione o è una semplice ‘fotografia’ di quanto accaduto? E’ eticamente e deontologicamente corretto attribuire questi appellativi?
«Il caso che hai evocato è assolutamente emblematico. Sulla vicenda dei Parioli, carta stampata e televisioni hanno fatto ampio ricorso a titoli volgari e stigmatizzanti, violando sistematicamente il codice deontologico e il buon senso . Una sorta di gioco, di ricerca del titolo d’effetto, che hanno finito con il generare -o quantomeno rafforzare- nell’opinione pubblica un pensiero arcaico e che si vorrebbe superato, che vuole la donna responsabile della stessa violenza da essa subita. ‘Baby-squillo’, letteralmente prostituta bambina. Una bambina che fa sesso a pagamento. Si stilla così il dubbio che si tratti effettivamente di violenza su minore. Ammorbidendo il ruolo dell’adulto, che cerca una ragazzina per far sesso. Che passa da ‘pedofilo’ a ‘cliente di una prostituta’. Una scelta aberrante e irresponsabile. Un buon giornalismo, al contrario, avrebbe dovuto porre l’accento sullo spaccato sociologico, sul vuoto di valori di cui fanno la spese soprattutto i giovani. Occorre dunque un’adeguata formazione -dei giornalisti e di chi opera nel mondo della comunicazione- all’uso consapevole e rispettoso del linguaggio e della lingua di genere, che diventa ancora più urgente quando il fatto di cronaca ha per protagonisti i minori. Le linee guida dettate dalla carta Di Treviso sono chiare. Tuttavia non ancora sufficienti».
Francesca Santolini (giornalista de Il Giorno e Consigliere CNOG), come contrastare gli stereotipi di genere? Come ti rapporti con l’intervistato/intervistata?
«Gli stereotipi di genere si combattono non lasciandosi condizionare. Ad esempio, non importa se mi trovo ad intervistare un uomo o una donna, in quel momento, la persona che ho davanti a me è senza sesso. Solitamente si parla di lavori, professioni che proprio per la loro neutralità non devono essere condizionati dal genere o dagli impegni famigliari. Certo, non bisogna cadere nella retorica e chiedere, per esempio, in caso di donne che rivestono incarichi politici “come si può far coincidere casa e carriera?”. In quel caso sarei proprio io a creare disparità di genere. Ovvio, con questo non intendo dire che non ci siano differenza tra uomo e donna, ma che ci sono ambiti in cui il sesso non deve condizionare l’autorevolezza di un ruolo».
Francesca, coniugare il genere nelle posizioni di potere è una cosa che spesso irrita i maschi, ma suscita delle reazioni negative anche da parte delle donne. Ministra, assessora, segretaria generale e via dicendo. Spesso appare come una forzatura inutile o no?
«Non amo usare il femminile nei nomi che solitamente si declinano al maschile, non mi piace e spesso sono cacofonici. Personalmente, inoltre, non credo che il termine Ministra sia un valore aggiunto al ruolo che, in questo caso una donna, ricopre. Però, se questo servisse a sensibilizzare le coscienze verso un atteggiamento migliore nei confronti del genere femminile ben venga l’utilizzo della declinazione in rosa di tutte le parole. Penso anche sia una questione di mentalità: sono cresciuta in un’epoca, e in una famiglia, in cui la differenza di genere non ha inciso sul mio agire o sul il mio pensiero e quindi non mi condiziona nello scrivere o nell’intervistare. Detto questo, ribadisco che posso condividere e utilizzare alcuni vocaboli, anche se cacofonici, per sposare la battaglia per la parità di genere a patto che , questa, non sia strumentalizzata da alcune frange che dietro la parola parità celano invece, un femminismo esasperato».
E questa tematica non manca nemmeno nell’informazione locale. Il linguaggio di genere non sempre viene rispettato. Quando lo si fa, spesso viene considerato come ‘strano’, anomalo, ‘che suona male’. «Se il giornalismo ha un futuro, ce l’ha partendo dall’informazione locale». A maggior ragione le notizie devono essere ben dettagliate e occorre approfondire i fatti legati al territorio. E anche il linguaggio deve essere uno strumento ben utilizzato.
Monica Guzzi (giornalista de Il Giorno Monza Brianza), a livello locale, come si affrontano le grandi tematiche? Come si imposta e sviluppa la notizia? Essere una giornalista donna preclude in qualche modo la ricerca di informazioni?
«Penso che essere una giornalista donna sia una risorsa. Lavoro al Giorno da 27 anni e mi sono occupata di tutto, soprattutto all’inizio, quando la redazione di Monza era un semplice ufficio di corrispondenza. Le donne generalmente sanno essere empatiche e non fanno fatica a mettersi nei panni dei loro interlocutori. Sanno entrare nelle storie che raccontano senza difficoltà, perché affrontano ogni questione a 360 gradi. Sanno coltivarsi le loro fonti e raramente sono aggressive. Personalmente lavoro benissimo con le colleghe donne, in redazione e fuori. Di tutte apprezzo la capacità di organizzarsi. Siamo tutte donne acrobate, costrette a fare i salti mortali fra figli, casa e lavoro: da questa consapevolezza spesso nasce una vera solidarietà che va oltre la professione».
Raccontare un femminicidio non è una cosa piacevole, anzi. Ma bisogna. Perché è comunque un fatto di cronaca. Monica, ma se un uomo uccide una donna, è perché era in preda a un raptus (e quindi lo si giustifica perché è un gesto involontario) oppure perché è uno stalker (dove vi è la consapevolezza del gesto)? Dove cogli più “disattenzione” nei confronti delle donne, nei titoli, nei testi oppure nelle immagini?
«In questi ultimi anni la mia battaglia personale è incentrata sul linguaggio di genere. Siamo ad una svolta in cui la forma è anche sostanza, ma non tutti i colleghi sono sensibili al problema. E così per molti scrivere sindaca o assessora al posto di sindaco o assessore anche quando si tratta di cariche femminili è solo un semplice vezzo vetero femminista. Io allora insisto e tiro fuori il solito esempio dall’enciclopedia Treccani: sindaco è un sostantivo maschile che al femminile prende la a, perché il neutro lo lasciamo ai latini, nella nostra lingua moderna non esiste. E allora devi stare a spiegare ad ognuno che magari sindaca fa impressione solo perché per anni i sindaci sono stati maschi: al femminile non veniva usato perché non serviva, non perché non esisteva. E ogni volta tocca indossare i panni della professoressa saccente e salire in cattedra. I nostri giornali in gran parte non sono pronti e nelle stesse pagine sindache e sindaci continuano a convivere tranquillamente… Stessa cura, perché le parole sono importanti, serve quando si descrivono i delitti più brutali, quando si ha a che fare con minori o quando si parla di femminicidi. Innanzitutto penso che nella civiltà dell’immagine sia fondamentale fare molta attenzione alle foto che si pubblicano, perché, se accanto al titolo di una donna uccisa dal marito, mettiamo la foto di una ragazza discinta e poi magari aggiungiamo pure “tragedia della gelosia” non facciamo un buon servizio alla verità. I femminicidi sono delitti e gli autori sono assassini. Stiamo attenti, quando raccontiamo le storie di queste povere donne, a evitare termini come “raptus” o “gesto di follia”, perché sono termini che rischiano di giustificare quello che è solo un barbaro omicidio».
La riflessione sull’uso della lingua di genere nella stampa ci suggerisce che, nonostante per l’italiano non sia ancora una priorità utilizzare un linguaggio sempre di genere, la sensibilizzazione al tema in atto in questi ultimi anni, ha permesso che la lingua della stampa si muovesse più velocemente di altri linguaggi, come per esempio quello giuridico. L’oscillazione è comunque un fenomeno positivo, ma sicuramente destabilizza chi legge, soprattutto quando non c’è uniformità di denominazione nemmeno all’interno dello stesso articolo. Spesso si verifica infatti una non-uniformità fra il titolo e il testo, in cui si trova il sostantivo al femminile. Cerchiamo tutti quindi di dare una maggiore importanza a un linguaggio di genere in tutti i mezzi di comunicazione. Anche perché la donna puo’ arrivare molto lontano. Soprattutto dal punto di vista professionale.