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L’informazione si veste di rosa

22/03/2017
Come viene considerata in Italia la comunicazione di genere?
Oggi purtroppo esistono ancora ostacoli alla crescita professionale delle donne

Il giornalismo dell’altra metà del cielo? Purtroppo ancora oggi donne e giornalismo rappresentano un binomio imperfetto. Questo è quanto emerge da diversi sondaggi. Le cariche più alte, come quelle di direttore o caporedattore sono ricoperte da penne maschili quasi nel doppio dei casi rispetto alle colleghe donne. Ma esistono ancora ostacoli alla crescita professionale delle donne? Gli approcci alla professione variano a seconda del genere? E la realtà è diversa se a percepirla è un occhio maschile o uno femminile? Pare di sì.
 
In questo confronto cerchiamo di osservare le donne come soggetto e oggetto dell’informazione. Lo analizziamo in alcuni ambiti come la cronaca, lo sport, nell’informazione locale, come gestiscono la notizia in tempo reale e il tipo di linguaggio che occorrerebbe utilizzare per una corretta comunicazione di genere.
 
Per iniziare prendiamo spunto da una riflessione ci arriva dalla pubblicazione ‘Tutt’altro genere di informazione’, un manuale per una corretta rappresentazione delle donne nell’informazione, realizzato e curato dal Gruppo di Lavoro Pari Opportunità (PO) del Consiglio Nazionale dell’Ordine dei Giornalisti (CNOG), sulla base di una ricerca quantitativa sulle prime pagine dei quotidiani e nei titoli dei TG all’interno di un’analisi di studio condotta nel 2015 dall’Osservatorio di Pavia.
 
Vi era già la consapevolezza che le donne, nei telegiornali e sui quotidiani, erano rappresentate poco e male, ma da questo studio emerge che le donne fanno notizia quasi esclusivamente se vittime di violenza. Solo in questi casi l'interesse per loro arriva al 48%. Sulle prime pagine di 102 quotidiani e nei sommari di 56 edizioni di telegiornali, la presenza femminile all'interno delle notizie è solo del 17% e le firme di donne sono il 20%, nonostante le colleghe rappresentino il 40% della categoria.
 
Ci introduce l’argomento Maria Ancilla Fumagalli che nel 2015 era una componente del Gruppo di Lavoro PO che ha realizzato il volume citato, attualmente giornalista e responsabile dell’informazione e comunicazione del Comune di Brugherio, Consigliera CNOG e Vicepresidente della Commissione Giuridica. La pubblicazione non vuole imporre regole, ma invita a un’approfondita riflessione per abituare le nuove generazioni a un linguaggio declinato al femminile, che esca dagli schemi a cui ci siamo abituati, con la consapevolezza che esistono altri modi molto più rispettosi delle donne e della corretta informazione.
 
- Ce ne parli brevemente?
«Tutt’altro genere di informazione è uno dei “quaderni” pubblicati a cura del CNOG sul sito old.odg.it che, come ben spiega il suo sottotitolo, vuole essere un “Manuale per una corretta rappresentazione delle donne nell’informazione”. Non è semplice però parlarne brevemente, proprio perché trattasi di un manuale e, in quanto tale, deve trattare i temi più importanti di un argomento difficile da perimetrare come l’informazione, tanto più quella “di genere”.  In ogni caso ci provo.
La pubblicazione è il risultato di un progetto nato dalla constatazione, valida 2 anni fa come ora, che la stampa femminile si configura quale territorio resiliente all’interno di un contesto mediatico e sociale profondamente mutato dai new media, per via della sua capacità di proporre un’offerta integrata, con l’edizione a stampa e quella digitale complementari l’una all’altra. Oltre tutto si rivolge a un target che è oggi al centro di profondi mutamenti sociali, mai così negoziati o rinegoziati come negli anni più recenti, che hanno diffuso la consapevolezza delle numerose difficoltà che ostacolano il pieno raggiungimento delle pari opportunità.
Da qui gli obiettivi di analizzare i contenuti della stampa periodica femminile, al fine di ricostruire l’immaginario femminile da essa veicolato, attraverso un approccio socio semiotico andando ad individuare i modelli di donna trasmessi, i ruoli e le relazioni di genere, le tematiche proposte come interessanti per un pubblico eminentemente ma non esclusivamente femminile, i valori e gli stili di vita promossi.
Il manuale può essere anche un utile strumento per capire, almeno parzialmente, le ragioni per cui, a fronte di una profonda crisi della carta stampata, i periodici femminili appaiono ancora come un territorio capace di proteggere le sue lettrici e, perché no, i suoi lettori.
E’ strutturato in più parti: la prima è il risultato di un lavoro congiunto del Gruppo di Lavoro PO, che ha analizzato 15 quotidiani nell'arco di sette settimane, con l'Osservatorio di Pavia che, nello stesso periodo, ha condotto analoga analisi sui telegiornali. Da qui sono derivati casi di studio e linee guida per una corretta informazione. Non mi soffermerò tuttavia sui risultati quantitativi emersi sia perché già riportati in premessa sia perché andrebbero aggiornati.
E’ stata poi approfondita la "qualità", e da qui è scaturito che le donne vengono rappresentate spesso usando stereotipi che non sono mai neutri, ma si fondano sull'opposizione simbolica di donne e uomini, con le  donne in posizione subordinata, o mettendo in atto un processo di svilimento trasmettendo un'immagine riduttiva attraverso dettagli non pertinenti e quasi sempre correlati alla sfera sessuale.
E’ recente il titolo 'Patata bollente' con cui Libero lo scorso 10 febbraio ha aperto in prima pagina con un articolo sulla sindaca di Roma Virginia Raggi scatenando reazioni di solidarietà bipartisan (per una volta finalmente tutti d’accordo), ma prestando il fianco a commenti generici come “La stampa ha superato ogni limite” o “Questa è l’informazione italiana” facendo di ogni erba un fascio.
Seguono poi nove interviste a direttrici e direttori di giornali e TG, a una senatrice scienziata, ad accademiche, a un semiologo e al fondatore dell’associazione Maschile Plurale. Tutti d'accordo nel non voler imporre "regole", ma convinti della necessità "di un cambiamento del punto di vista", come sostiene Mario Calabresi. Elena Cattaneo propone di "abituare le nuove generazioni a un linguaggio declinato al femminile"; Barbara Stefanelli afferma che "cambiano i ruoli e cambiano anche le parole che, a loro volta, spingono al cambiamento"; Ugo Volli dice che "scrivere femminicidio e non delitto passionale non è un espediente linguistico, ma una scelta culturale".
La chiusura del manuale è affidata a Stefania Cavagnoli, professoressa di linguistica e glottologia presso l'Università di Roma Tor Vergata, che indica qualche regola. Sono le regole che ci impone la nostra lingua,  che prevede che le parole debbano essere declinate secondo il genere femminile e maschile: se il soggetto di cui parliamo è donna, è d’obbligo l’uso del femminile. E questo a dimostrazione che l’uso di una lingua non adeguata al genere e alla posizione che questo genere dovrebbe rappresentare nella sfera sociale e professionale contribuisca ad una costante sottovalutazione di competenze e ruoli con il rischio non così remoto di generare poi l’idea che la donna ricopra posizioni di molto inferiori rispetto all’uomo.
 
Queste le mie deduzioni:

le riflessioni sul genere femminile non possono essere trattate in modo isolato, separatamente da quelle sul maschile: i due sessi si influenzano attivamente, le esistenze si intrecciano in legami e contrasti,  la condizione femminile e quella maschile sono legate indissolubilmente;
il genere è, dunque, un termine biunivoco e non univoco, è un  codice binario, che implica reciprocità e dialettica costante, e riassume le relazioni e le interazioni fra donne e uomini,  sempre in costante trasformazione.  Donne e uomini insieme, perché il nostro essere al femminile o al maschile, si crea nelle relazioni sociali e nelle forme di riconoscimento reciproco.

Per concludere, intendo segnalarvi che il gruppo di lavoro PO non si è fermato al Manuale, ma ha proseguito nel suo percorso volto a dare sempre più spazio a un’informazione corretta e priva di pregiudizi, nella convinzione che occorre trovare “le parole giuste” quando si parla di violenza e femminicidio, mettendo al bando tutte le espressioni fuorvianti che attenuano o addirittura giustificano la gravità del fatto, quali “delitto passionale”, “raptus”, “pista sentimentale”, “gelosia”. Per questo, e anche per rendere più attuale ed esaustivo il decalogo dell'IFJ (International Federation of Journalists) che peraltro condivide, propone un Osservatorio permanente dell’Ordine Nazionale dei Giornalisti, con una mail dedicata dove raccogliere segnalazioni sia di “cattive” che di "buone pratiche". Quindi, tutte le volte che sui mezzi d'informazione si parla di professioniste che rappresentano un'eccellenza nel loro settore di competenza, è doveroso prenderne atto e diffondere la notizia. La mail alla quale inviare le segnalazioni è: pariopportunita@odg.it».
 
Passiamo ora a parlare del giornalismo al femminile legato allo sport. Essere giornalista sportivo non sempre è facile. Se sei donna, ancora di piu’. Spesso la donna giornalista viene considerata come ‘meno competente’ rispetto al collega uomo, perché forse ritenuta meno appassionata di sport. E di esempi ne abbiamo parecchi. Un esempio tra tanti. Inter-Milan, partita di andata di Campionato 2015/2016, la giornalista Mikaela Calcagno si è sentita rispondere in maniera ‘accesa’ dall’allenatore del Milan in merito a una scelta tattica. Infatti, dopo il derby Inter-Milan la giornalista aveva intervistato il tecnico rossonero chiedendo il perché di una sostituzione. Domanda alla quale si è sentita rispondere: “Perché io faccio l'allenatore e lei la presentatrice".
 
- Domanda. Ma il tecnico avrebbe risposto in egual modo anche se il giornalista fosse stato uomo? Anche a voi sono capitate situazioni di questo tipo? Come avete reagito e cosa ne pensate al riguardo?
 
Sabrina Gandolfi (giornalista e conduttrice RAI Sport): «Non credo nei "titoli" declinati al femminile al fine di rendere la comunicazione più rispettosa del genere. Credo invece da sempre che il rispetto nasca principalmente dalle stesse donne. Troppo spesso si commette l'errore di guardare con diffidenza alla collega che ottiene una promozione o al capo donna. La consapevolezza del proprio essere è la chiave di tutto, ma ritengo sia altrettanto importante partire da qualche parte, in qualche modo, per cui dal principio "quote rosa" ad altri strumenti come il linguaggio, tutto serve per fare quel passo che conduca alla disinvoltura nel mondo del lavoro, alla serenità che non pone più domande sul sesso di appartenenza».
 
Irma D’Alessandro (giornalista e conduttrice Sport Mediaset): «Non mi è mai capitato, non ho mai dovuto affrontare situazioni di questo tipo in una maniera così palese. Credo anche grazie al fatto di avere una carriera divisa in più ruoli: inviato, conduttore, desk; quindi difficilmente identificabile come pura e semplice ‘presentatrice’.
Sull’episodio specifico, credo sia stata una brutta pagina di televisione e di educazione ma non l ‘unica. Ricordo una risposta molto scortese di Sinisa Mihajlovic, allenatore, a Vera Spadini , inviata di Sky.
In casi del genere,in attesa che ‘il sistema’ intervenga in tua difesa, l’unica arma immediatamente a disposizione è ‘avere l’ultima parola’ e mettersi sempre in condizione di averla. A mio parere, abbozzare per dimostrare ‘freddezza’ o ‘self-control’ può venir scambiato per inadeguatezza».
 
- Perché la donna viene spesso sottovalutata e quali sono, secondo voi, gli strumenti per cambiare questo immotivato ‘dogma’?
 
Sabrina: «Mi è capitata la scortesia, ma mai legata al fatto di essere donna (tranne da parte di qualche presunto tifoso). Sto per ripetermi, ma gli attacchi peggiori riferiti ad aspetto e affini, li ho ricevuti da donne. Gli uomini tendenzialmente, nel momento esatto in cui colgono la tua preparazione, cessano persino i propri pensieri sessisti. Le donne lottano ancora troppo tra loro per farlo contro un malcostume, una pessima tradizione. 
Non mi sono mai sentita sottovalutata, ma so che capita a molte donne di frequente. Lo strumento principale per combattere questa stupida consuetudine è iniziare a lavorare sui bambini, sul loro percepire l'altro sesso e il proprio. Si sparecchia maschi e femmine, si fa sport entrambi, si coltivano le ambizioni di ciascuno, in egual misura, aspettativa e passione. Solo un ragazzo che cresce in una famiglia che educa alla parità di genere, consegnerà al mondo un essere umano, uomo o donna che sia». 
 
Irma: «La ‘rivoluzione’ per cambiare il sistema è lenta ma progressiva. E comunque è un fatto di proporzioni: ci vorrà ancora tempo perché le donne  in questo mestiere nei posti di comando e ruoli apicali, abbiamo la maggioranza, in termini di numeri, rispetto agli uomini. A Mediaset Sport, però, siamo messi piuttosto bene: i 2 migliori e più stimati inviati sul calcio internazionale (materia storicamente di dominio maschile) sono donne, il caporedattore centrale è una donna».
 
Anche la cronaca ha le sue ‘divergenze al femminile’. Non solo i fatti, ma anche le parole e le immagini che le accompagnano sono importanti per la costruzione delle notizie. Spesso, quando a fare notizia sono le donne, si assiste a un uso delle parole approssimativo o addirittura improprio. E ancora di piu’ nel giornalismo e in generale nel mondo dei media è importante che si colmi la lacuna di cultura e linguaggio di genere.
 
Annamaria Levorin (giornalista RAI  e conduttrice del Tg3 nazionale), come si comporta la stampa al riguardo? Che tipo di linguaggio viene utilizzato oggi dai media? Perché il linguaggio diventa importante per definire l'immagine della donna?
 
«Anzitutto perché la violenza di genere è un problema culturale, dunque anche una questione di linguaggio:  è  attraverso la lingua, le metafore usate nel linguaggio comune, che prendono vita modelli culturali  e stereotipi.  E, come è noto, i media giocano un ruolo determinante nella formazione di un sentire comune, nella rappresentazioni di immagini e stereotipi, nella loro diffusione nel sociale. Basti pensare a come  spesso la cronaca sulla violenza sulle donne viene narrata da quotidiani, telegiornali  e nei talk show. A cominciare dalla descrizione dell’autore della violenza: ‘Ha agito in un raptus di gelosia’…‘Era depresso’….’Si sentiva tradito’…’Non accettava la separazione’… ‘Un delitto passionale’.  Le  parole pesano:  Sono tanti gli errori del lessico giornalistico che, più o meno consapevolmente, portano ad una lettura talvolta  giustificatoria del femminicidio, che finisce per essere derubricato ad una “reazione istintiva” dell’omicida ad una provocazione. Di contro è  sulla vittima che  la cronaca abbonda spesso di  particolari legati al suo aspetto fisico, tanto inutili quanto pericolosi. Potrei citare una luna serie di esempi, ma direi che basta un fatto per descriverne complessivamente la portata: pensiamo al caso Pistorius, l’atleta paralimpico  che nel 2013 uccise la fidanzata nella propria abitazione. La vittima, la modella Reeva Stenkamp, venne sbattuta da subito in prima pagina con aggettivi e pose scelte ad hoc per descriverne l’avvenenza: una selezione di scatti che ne ritraevano le curve, senza alcun rispetto per la vittima. Servizi talvolta farciti di particolari cruenti, scabrosi, futili e deontologicamente scorretti, incoraggiati da line e autori che puntano a fare audience, a dispetto dell’etica e della delicatezza che si dovrebbe sempre a un fatto che ha al centro una donna che ha subito violenza…».
 
Sempre riguardo all’importanza del linguaggio, nel trattare alcune argomenti piu’ delicati, soprattutto a carico di donne minorenni, è stata utilizzata dai media la definizione “le baby squillo dei Parioli”. Qui manca la tutela dell’immagine del minore e soprattutto viene messo in secondo piano il ruolo degli uomini che ‘sfruttavano’ queste ragazze.  Annamaria, questa è cattiva informazione o è una semplice ‘fotografia’ di quanto accaduto? E’ eticamente e deontologicamente corretto attribuire questi appellativi?
 
«Il caso che hai evocato è assolutamente emblematico. Sulla vicenda dei Parioli,  carta stampata e televisioni hanno fatto ampio ricorso a titoli volgari e  stigmatizzanti, violando sistematicamente il codice deontologico e il  buon senso .  Una sorta di gioco, di ricerca del titolo d’effetto, che hanno finito con il  generare -o quantomeno rafforzare-  nell’opinione pubblica  un pensiero  arcaico e che si vorrebbe superato,  che vuole la donna responsabile della stessa violenza da essa subita.  ‘Baby-squillo’, letteralmente prostituta bambina. Una bambina che fa sesso a  pagamento. Si stilla così il dubbio che si tratti effettivamente di violenza su minore. Ammorbidendo il ruolo dell’adulto, che cerca una ragazzina per far sesso.    Che passa da ‘pedofilo’ a ‘cliente di una prostituta’. Una scelta aberrante e irresponsabile. Un buon giornalismo, al contrario, avrebbe dovuto porre l’accento   sullo spaccato sociologico, sul vuoto di valori di cui fanno la spese soprattutto i giovani. Occorre dunque  un’adeguata formazione -dei giornalisti e di chi opera nel mondo della comunicazione- all’uso consapevole e rispettoso del linguaggio e della lingua di genere, che diventa ancora più urgente quando il fatto di cronaca ha per protagonisti i minori. Le linee guida dettate dalla carta Di Treviso  sono chiare. Tuttavia non ancora sufficienti».
 
Francesca Santolini (giornalista de Il Giorno e Consigliere CNOG), come contrastare gli stereotipi di genere? Come ti rapporti con l’intervistato/intervistata?
 
«Gli stereotipi di genere si combattono non lasciandosi condizionare. Ad esempio, non importa se mi trovo ad intervistare un uomo o una donna, in quel momento, la persona che ho davanti a me è senza sesso. Solitamente si parla di lavori, professioni che proprio per la loro neutralità non devono essere condizionati dal genere o dagli impegni famigliari. Certo, non bisogna cadere nella retorica e chiedere, per esempio, in caso di donne che rivestono incarichi politici  “come si può far coincidere casa e carriera?”. In quel caso sarei proprio io a creare disparità di genere. Ovvio, con questo non intendo dire che non ci siano differenza tra uomo e donna, ma che ci sono ambiti in cui il sesso non deve condizionare l’autorevolezza di un ruolo».
 
Francesca, coniugare il genere nelle posizioni di potere è una cosa che spesso irrita i maschi, ma suscita delle reazioni negative anche da parte delle donne. Ministra, assessora, segretaria generale e via dicendo. Spesso appare come una forzatura inutile o no?
«Non amo usare il femminile nei nomi che solitamente si declinano al maschile, non mi piace e spesso sono cacofonici. Personalmente, inoltre,  non credo che il termine Ministra sia un valore aggiunto al ruolo che, in questo caso una donna, ricopre. Però, se questo servisse a sensibilizzare le coscienze verso un atteggiamento migliore nei confronti del genere femminile ben venga l’utilizzo della declinazione in rosa di tutte le parole. Penso anche sia una questione di mentalità: sono cresciuta in un’epoca, e in una famiglia,  in cui la differenza di genere non ha inciso sul mio agire o sul il mio pensiero e quindi non mi condiziona nello scrivere o nell’intervistare. Detto questo, ribadisco che posso condividere e utilizzare alcuni vocaboli, anche se cacofonici, per sposare la battaglia per la parità di genere a patto che , questa, non sia strumentalizzata da alcune frange che dietro la parola parità celano invece, un femminismo esasperato».
 
E questa tematica non manca nemmeno nell’informazione locale. Il linguaggio di genere non sempre viene rispettato. Quando lo si fa, spesso viene considerato come ‘strano’, anomalo, ‘che suona male’. «Se il giornalismo ha un futuro, ce l’ha partendo dall’informazione locale». A maggior ragione le notizie devono essere ben dettagliate e occorre approfondire i fatti legati al territorio.  E anche il linguaggio deve essere uno strumento ben utilizzato.
 
Monica Guzzi (giornalista de Il Giorno Monza Brianza), a livello locale, come si affrontano le grandi tematiche? Come si imposta e sviluppa la notizia? Essere una giornalista donna preclude in qualche modo la ricerca di informazioni?
 
«Penso che essere una giornalista donna sia una risorsa. Lavoro al Giorno da 27 anni e mi sono occupata di tutto, soprattutto all’inizio, quando la redazione di Monza era un semplice ufficio di corrispondenza. Le donne generalmente sanno essere empatiche e non fanno fatica a mettersi nei panni dei loro interlocutori. Sanno entrare nelle storie che raccontano senza difficoltà, perché affrontano ogni questione a 360 gradi. Sanno coltivarsi le loro fonti e raramente sono aggressive. Personalmente lavoro benissimo con le colleghe donne, in redazione e fuori. Di tutte apprezzo la capacità di organizzarsi. Siamo tutte donne acrobate, costrette a fare i salti mortali fra figli, casa e  lavoro: da questa consapevolezza spesso nasce una vera solidarietà che va oltre la professione».
 
Raccontare un femminicidio non è una cosa piacevole, anzi. Ma bisogna. Perché è comunque un fatto di cronaca. Monica, ma se un uomo uccide una donna, è perché era in preda a un raptus (e quindi lo si giustifica perché è un gesto involontario) oppure perché è uno stalker (dove vi è la consapevolezza del gesto)? Dove cogli più “disattenzione” nei confronti delle donne, nei titoli, nei testi oppure nelle immagini?
 
«In questi ultimi anni la mia battaglia personale è incentrata sul linguaggio di genere. Siamo ad una svolta in cui la forma è anche sostanza, ma  non tutti i colleghi sono sensibili al problema. E così per molti scrivere sindaca o assessora al posto di sindaco o assessore anche quando si tratta di cariche femminili è solo un semplice vezzo vetero femminista. Io allora insisto e tiro fuori il solito esempio dall’enciclopedia Treccani: sindaco è un sostantivo maschile che al femminile prende la a, perché il neutro lo lasciamo ai latini, nella nostra lingua moderna non esiste. E allora devi stare a spiegare ad ognuno che magari sindaca fa impressione solo perché per anni i sindaci sono stati maschi: al femminile non veniva usato perché non serviva, non perché non esisteva. E ogni volta tocca indossare i panni della professoressa saccente e salire in cattedra. I nostri giornali in gran parte non sono pronti e nelle stesse pagine sindache e sindaci continuano a convivere tranquillamente… Stessa cura, perché le parole sono importanti, serve quando si descrivono i delitti più brutali, quando si ha a che fare con minori o quando si parla di femminicidi. Innanzitutto penso che nella civiltà dell’immagine sia fondamentale fare molta  attenzione alle foto che si pubblicano, perché, se accanto al titolo di una donna uccisa dal marito, mettiamo la foto di una ragazza discinta e poi magari aggiungiamo pure “tragedia della gelosia” non facciamo un buon servizio alla verità. I femminicidi sono delitti e gli autori sono assassini. Stiamo attenti, quando raccontiamo le storie di queste povere donne, a evitare termini come “raptus” o  “gesto di follia”, perché sono termini che rischiano di giustificare quello che è solo un barbaro omicidio».
 
La riflessione sull’uso della lingua di genere nella stampa ci suggerisce che, nonostante per l’italiano non sia ancora una priorità utilizzare un linguaggio sempre di genere, la sensibilizzazione al tema in atto in questi ultimi anni, ha permesso che la lingua della stampa si muovesse più velocemente di altri linguaggi, come per esempio quello giuridico. L’oscillazione è comunque un fenomeno positivo, ma sicuramente destabilizza chi legge, soprattutto quando non c’è uniformità di denominazione nemmeno all’interno dello stesso articolo. Spesso si verifica infatti una non-uniformità fra il titolo e il testo, in cui si trova il sostantivo al femminile. Cerchiamo tutti quindi di dare una maggiore importanza a un linguaggio di genere in tutti i mezzi di comunicazione. Anche perché la donna puo’ arrivare molto lontano. Soprattutto dal punto di vista professionale.