I francesi, che amano 'adottare' i grandi campioni stranieri, lo chiamavano "Botescia', con l'accento sull'ultima, un po' come si usava con Fausto Coppi soprannominato "Fosto'". Era un modo per far capire che nella forza di quei giganti c'era qualcosa della Francia, una bandierina di 'grandeur' che aggiungeva nobiltà sia al Tour sia ai protagonisti.
Non erano tempi facili, neanche per andare in bicicletta. Adesso si gioca sui decimi di secondo, si vince al fotofinish. Un dettaglio fa la differenza.
Ma allora, quando Ottavio Bottecchia vinse due volte (1924 e '25) il Tour de France, i distacchi erano enormi. Roba da far paura. Quarti d'ora come se piovesse, corridori che si perdevano cadendo nei fossi, forature a ripetizione. Che voleva dire fermarsi, rattoppare il buco e ripartire con una bicicletta pesante come un carico di piombo. Solo che su quei trabiccoli in tappe lunghe anche 400 km, il traguardo non arrivava mai.
Diciamo che la selezione non era solo tecnica. Bisognava resistere al caldo e al freddo, alla fatica, alla solitudine. Se poi eri anche bravo a pedalare, ecco che allora potevi avere delle buone chances.
Ottavio Bottecchia queste buone chances le aveva. Eccome se le aveva! Era un combattente nato: non a caso nella Grande Guerra era stato decorato con una medaglia di bronzo al valor militare. Faceva parte, ca va sans dire, del sesto battaglione dei bersaglieri ciclisti.
Friulano doc, nato a San Martino di Colle Umberto il 1 agosto 1894, Bottecchia nella vita aveva fatto tutti quei mestieri dove bisogna far fatica (muratore, carrettiere, facchino) dall'alba al tramonto. Forse per quello, dopo una vita così, correre al Tour de France non poteva spaventarlo più di tanto.
"Peggio di una fucilata dagli austriaci o di dover costruire muri di una casa sotto il sole non può capitare..." diceva agli amici Botescia' con un sorriso maligno. " Se vinci una tappa 4 soldi almeno te li porti a casa".
E infatti. Pur avendo cominciato tardi (diventò ciclista professionista a 27 anni), Bottecchia di Tour ne vince addirittura due, il primo nel 1924 indossando la maglia gialla dalla prima all'ultima tappa (record eguagliato solo da Jacques Anquetil) e la seconda l'anno successivo facendo di nuovo saltare il banco della Grande Boucle.
L'ultima apparizione, come racconta Claudio Gregori nel suo ultimo libro ('Il corno di Orlando, vita, morte e misteri di Ottavio Bottecchia, pp 532, editore 66th and 2nd), avviene nel 1926, ma il Grande Combattente , il nostro Orlando in bicicletta, comincia a patire le ruggini del tempo e soprattutto della fatica. Tradito anche dai suoi compagni, Bottecchia si ritira dopo una tappa flagellato dal maltempo.
E qui arriva il bello della storia. Se di bello si può parlare, visto che Ottavio Bottecchia, già l'anno successivo , nel 1927, muore dopo nove giorni di agonia all'ospedale di Gemona. Lo trovano il 3 giugno sulla strada tra Cornino e Peonis due contadini che stavano lavorando. È in uno stato pietoso, la testa fratturata, una clavicola rotta, la faccia una maschera di sangue. La bici per terra, ma senza danni particolari.
Bottecchia era da solo. Non avendo trovato compagni per uscire ad allenarsi insieme (il fedele gregario Alfonso Piccin gli aveva dato buca per andare a un appuntamento con la fidanzata), alla fine si è messo in marcia da solo. Sono le dieci di mattina, non fa neanche tanto caldo. Eppure Bottecchia è in fin di vita, tanto che gli danno l'estrema unzione e con un carretto lo portano all'ospedale di Gemona.
Ma come ha fatto, solo cadendo, a ridursi in quello stato? Anche Gregori, nella sua minuziosa ricostruzione, fa trasparire il suo scetticismo sull'ipotesi di un banale incidente.
Però il mistero s'infittisce. Le piste si moltiplicano. Prima viene fuori un contadino che dice d'aver picchiato Bottecchia 'perché rubava l'uva, ipotesi poco probabile a giugno, quando l'uva è acerba. Poi viene fuori una questione di donne, una specie di vendetta finita nel sangue. Scartata anche questa. E poi l'agguato politico perché il vincitore di due Tour, secondo la rivelazione fatta dal parroco di Peonis, don Dante Nigris, pagò "il suo antifascismo".
Un ginepraio in cui più si va a fondo più ci si perde e più aumenta il fascino di una storia dove il "Noir" si mischia con la leggenda. Va anche ricordato, che pochi giorni prima dell'"incidente", anche il fratello di Bottecchia, Giovanni, era morto, investito da un'auto di un pezzo grosso del fascismo, addirittura testimone alle nozze di Mussolini.
Pare, ma il condizionale è d'obbligo, che Ottavio fosse andato da questo caporione per discutere il risarcimento per la morte di Giovanni. Ma i due non solo non si accordarono, ma si insultarono pure, cosa che non piacque al Capataz, poco incline a farsi mandare a quel paese da un ex muratore diventato ricco al Tour de France.
E qui non andiamo avanti, in questo giallo nel giallo, per non farvi perdere la bussola. Ci sarebbe da parlare anche di una assicurazione sulla vita, fatta da Bottecchia, che avrebbe spinto i familiari ad accettare come semplice "incidente sul lavoro "la morte del corridore.
Ci sarebbero molte altre ipotesi e altri particolari, che preferiamo lasciarli raccontare al collega Gregori, nostro compagno di strada di tanti Giri, Tour e classiche.
È un bel libro, quello di Gregori, perché insieme a una massiccia raccolta di ordini d'arrivo, classifiche documenti d'epoca mai raccolti prima, c'è anche lo Spirito del Tempo, quello di un mondo, tra due grandi guerre, che va sempre più veloce, anche pedalando, verso il suo destino non sempre magnifico e progressivo. Un destino purtroppo anche tragico, segnato da una nuova carneficina, ma anche ricchissimo di intuizioni di arte, cultura, scoperte scientifiche e "fughe" in avanti della Storia che ancora adesso ci accompagnano.