Quelle perquisizioni condannate dalla Corte Europea
Il Consiglio regionale dell’Ordine dei giornalisti del Piemonte ha deciso la pubblicazione integrale (a seguire) della lettera inviata il 23 ottobre dal Procuratore della Repubblica di Novara Francesco Saluzzo e indirizzata al presidente Sergio Miravalle, al direttore de La Stampa Mario Calabresi, alla redazione di Novara del quotidiano torinese e alla direzione de La Tribuna. E’ un documento che offre spunti di analisi e confronto utili a tutta la categoria nel più vasto e delicato quadro dei rapporti tra operatori dell’informazione e magistratura.
Il Procuratore difende e spiega il suo operato e ribadisce “il massimo rispetto e la massima considerazione per una libertà di stampa che non conosca altro limite che quello deontologico e quelli previsti della legge, quella penale in particolare”.
Ne prendiamo atto con soddisfazione, come giornalisti e come cittadini, pur tuttavia non possiamo non riflettere sulle modalità con le quali sono state condotte il 22 ottobre le perquisizioni alla redazione de La Stampa di Novara e a La Tribuna ordinate dalla Procura di Novara (come pure nel caso delle perquisizioni ordinate in agosto dalla Procura di Torino a carico di Diego Longhin de La Repubblica). Sono state perquisizioni particolarmente “invasive” che appaiono del tutto sproporzionate rispetto allo scopo dichiarato. Perquisizioni eseguite proprio nel giorno in cui sono scattati gli arresti per una vasta e clamorosa indagine su episodi di corruzione che i giornalisti novaresi Ambiel, Cortese e Barlassina avevano in parte anticipato
Nel merito giuridico le precisazioni del procuratore Saluzzo vertono su un punto cruciale. Il magistrato sostiene infatti che il giornalista che concorre a violare il segreto istruttorio deve assumersi le sue responsabilità e attendersi le conseguenze previste dalla legge, tra le quali appunto le misure — come le perquisizioni — attraverso le quali l’autorità giudiziaria può ricercare i primi responsabili di tale violazione.
Vorremmo però riflettere proprio sul ricorso alle perquisizioni e citare vari pronunciamenti della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo di Strasburgo.
Tre esempi: afferma la Corte nella sentenza Goodwin del 27 marzo 1996, che condanna il Regno Unito per la violazione dell’art. 10 della Convenzione europea per i Diritti dell’Uomo per aver intimato al giornalista William Goodwin di rivelare la fonte di alcune sue notizie: «La protezione delle fonti dei giornalisti è una delle pietre angolari della libertà di stampa [...] L’assenza di una tale protezione potrebbe dissuadere le fonti dei giornalisti dall’aiutare la stampa ad informare il pubblico su questioni di interesse generale. Di conseguenza, la stampa potrebbe non essere in grado di svolgere il proprio indispensabile ruolo di “cane da guardia” e la sua capacità di fornire informazioni precise e affidabili potrebbe risultarne ridotta».
Ancor più eloquente, poiché riguarda proprio un caso di perquisizioni eseguite sul luogo di lavoro e l’abitazione di un giornalista è la sentenza Roemen del 25 febbraio 2003. «Le perquisizioni nell’abitazione e nei locali professionali — afferma la Corte, nel condannare il Belgio — devono essere analizzate incontestabilmente come un’ingerenza nell’esercizio, da parte dell’interessato, dei diritti derivanti dal par. 1 dell’art. 10. [...] La Corte giudica che delle perquisizioni aventi per oggetto di scoprire la fonte di un giornalista costituiscono — anche se restano senza risultato — un’azione più grave dell’intimazione a divulgare l’identità della fonte. Infatti gli inquirenti che, muniti di un mandato di perquisizione, sorprendono un giornalista nel suo luogo di lavoro, detengono poteri d’indagine estremamente ampi poiché, per definizione, possono accedere a tutta la documentazione in possesso del giornalista». Dunque «la Corte conclude che le misure contestate devono essere considerate sproporzionate e hanno violato il diritto alla libertà d’espressione riconosciuto dall’art. 10 della Convenzione».
Lo stesso principio è stato affermato con la sentenza Tillack del 27 novembre 2007, secondo la quale «sono contrari alla Convenzione i procedimenti di perquisizione e sequestro condotti presso il domicilio e gli uffici di giornalisti, aventi come finalità principale l’accertamento delle fonti giornalistiche utilizzate, e riguardanti la generalità degli strumenti di lavoro dei giornalisti».
Questi pronunciamenti (che, secondo la Corte Costituzionale, sono vincolanti anche in Italia) contrastano con la tesi sostenuta dal procuratore di Novara, secondo cui il diritto «di ricevere o di comunicare informazioni e idee senza che vi possa essere ingerenza da parte delle autorità pubbliche» (previsto letteralmente dall’art. 10 della Convenzione) riguarderebbe soltanto le idee, ma non le informazioni.
Tali sentenze ribadiscono un dato evidente, e cioè che — al di là delle intenzioni di chi ordina queste perquisizioni — l’effetto che esse hanno è oggettivamente quello di comprimere la libertà di stampa e il pieno dispiegamento del diritto di raccogliere, ricevere e comunicare informazioni da parte dei giornalisti.
Sergio Miravalle
presidente dell’Ordine dei giornalisti del Piemonte
La lettera dal procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Novara
Massimo rispetto e considerazione per la libertà di stampa
Al Presidente dell’Ordine dei Giornalisti dott. Sergio Miravalle,
al Direttore de La Stampa dott. Mario Calabresi,
alla Redazione de La Stampa di NOVARA,
alla Direzione de La Tribuna di NOVARA.
Ritengo di dover intervenire in ordine al contenuto dei tre contemporanei “Comunicati”, rispettivamente dell’Ordine regionale dei Giornalisti del Piemonte (riportato, per sintesi, a pag. 55 del quotidiano La Stampa di oggi 23 ottobre 2009, integralmente sul periodico La Tribuna a pag. 19 dell’edizione odierna), del Comitato di Redazione de La Stampa, pubblicato a pag. 22 dell’edizione di oggi del medesimo quotidiano, e dell’intervento del Direttore del menzionato periodico La Tribuna sempre sul numero di oggi.
In questi interventi si lamenta, con una linea comune, come i provvedimenti adottati e posti in esecuzione ieri da questo Ufficio (e a mia firma) si inseriscano in una linea di azione (o, forse, di “reazione”), volta a comprimere la libertà di azione del giornalista, la sua pari libertà di procacciarsi le fonti e, attraverso esse, le notizie; in definitiva con l’obiettivo di limitare (o, comunque, di rendere difficoltoso e irto di ostacoli) l’esercizio del dovere e del diritto di informare. Aggiungendo, inoltre, che, con quei provvedimenti (dei quali si definisce il carattere intimidatorio) si intende, più o meno apertamente, raggiungere il risultato di costringere (o, perlomeno, tentare di farlo) il giornalista a rivelare le fonti delle sue informazioni e notizie.
Nulla di più errato e di più fuorviante, soprattutto, considerando l’ampiezza di spettatori e utenti cui il messaggio è destinato.
Errata è anche l’affermazione secondo cui, connesso alla libertà di stampa (nella sua più ampia e nobile accezione: che il mo Ufficio non intende assolutamente porre in discussione), sarebbe anche il diritto “di ricevere o di comunicare informazioni o idee senza che vi possa essere ingerenza da parte delle autorità pubbliche”. Vero con riferimento alle idee (salvi i limiti della diffamazione), inesatto, invece, con riferimento al ricevere o comunicare informazioni.
Infatti, con riferimento a queste ultime attività, non deve mai dimenticarsi che procurarsi notizie e informazioni utilizzando canali indebiti o, peggio, illeciti, comporta delle scelte e una conseguente assunzione di responsabilità.
Il giornalista che utilizza un pubblico ufficiale infedele (cioè colui che viene meno al dovere del rispetto del segreto, quando questo ancora vige con riferimento a una certa indagine: ed è proprio il caso che ci occupa, perché la fase dell’indagine era ancora coperta da un segreto, non scalfito dalla notifica di un atto che non conteneva alcuna informazione sui fatti) fa una consapevole scelta e non può poi dolersi di essere esposto alle conseguenze, almeno sino a quando l’attuale previsione penale rimarrà formulata nei termini attuali.
Equamente è inesatto che il mio Ufficio voglia costringere i giornalisti a rivelare le fonti: e ciò sarebbe stato il fine dei provvedimenti disposti ed eseguiti nella giornata di ieri. Nessuno ipotizza che al giornalista, nei casi specifici, possa essere imposto di rivelare ciò (né vi sono gli strumenti per farlo, né sarebbe possibile per la vigenza del principio “nemo tenetur se detegere”, poiché il giornalista dovrebbe ammettere il proprio concorso in un reato). Però nessuno può imporre né impedire al titolare dell’azione investigativa e dell’azione penale di svolgere indagini per individuare se – e, in caso positivo – chi abbia rivelato indebitamente o illecitamente – se pubblico ufficiale – le informazioni destinate a rimanere riservate o segrete.
E solo a questo tendono le indagini in corso e i connessi provvedimenti: alla ricerca di prove eventuali e di eventuali responsabilità per un fatto avente rilevanza penale, come avviene nei confronti di tutti i cittadini, senza che si possano invocare aree più o meno estese di salvaguardia e di impunità, salvo che nei casi previsti dalla legge.
Nessun altro fine è stato perseguito, nutrendo chi scrive (unitamente ai componenti dell’Ufficio dei quali interpreto il pensiero e l’orientamento) il massimo rispetto e la massima considerazione per una libertà di stampa che non conosca altro limite che quello deontologico e quelli previsti dalla legge, quella penale in particolare.
Sperando di aver reso un contributo per un chiarimento che auspico utile e necessario, i miei migliori saluti, con l’auspicio che si dia adeguato spazio a questa mia riflessione.
Novara, 22 ottobre 2009
Francesco Enrico SALUZZO
Procuratore della Repubblica