Era l'estate del 1952. L'Italia usciva faticosamente dalla guerra. E il ciclismo , allora sport nazionale più del calcio, veniva a fagiolo per farla dimenticare. Avevamo dei grandi campioni come Fausto Coppi e Gino Bartali (più Fiorenzo Magni, il terzo uomo) e una voglia potente di risalire la corrente e di darci dei traguardi: di ritrovarci dietro a un simbolo vincente dopo molte umiliazioni.
L'uomo che incarnava meglio questo spirito nazionale, era Fausto Coppi, "Fostò" per i francesi, campionissimo per eccellenza. Coppi era Coppi. Un talento assoluto con le stimmate del predestinato. Invincibile ma fragile come un purosangue, Coppi, all'apice della carriera, stava per andare alla conquista del suo secondo Tour de France. Per chi non è pratico di ciclismo, il Tour de France, detto anche Grande Boucle, è la più importante manifestazione sportiva dopo le Olimpiadi e i Mondiali di calcio. E nel 1952 il Tour, ancora riservato alle squadre nazionali, godeva di un valore patriottico in più.
Coppi, indossando a Parigi la maglia gialla, avrebbe onorato non solo il suo prestigio di campione ma anche quello dell’Italia, in un momento in cui la nostra autostima non era certo al massimo.
Ma qui, parlando di Coppi e di quel Tour, vogliamo dar lustro a un altro italiano, a un nostro indimenticabile collega, Mario Fossati, anche lui uscito per miracolo dalla guerra, da quella campagna di Russia, che lasciò dietro di sè una lunghissima scia di morte e di dolore.
Qui Fossati s'arrabbierebbe e, da buon brianzolo, direbbe di farla corta e andare al fatto: perchè Fossati, morto a 91 anni dopo oltre 60 anni di professione (per “La Gazzetta dello Sport”, “Il Giorno” e “la Repubblica”) non amava le intrusioni nel privato: soprattutto quando si parla di giornalisti che, per mestiere, dovrebbero parlare degli altri, dei protagonisti, e non di se stessi.
Ma questa volta, ce ne assumiamo la responsabilità, la copertina tocca a Fossati. Solo così possiamo ricordare un suo libro (Coppi, il Saggiatore, euro 14) che ha il merito di ricostruire non solo il trionfo sportivo di Coppi e della squadra italiana ma anche di farci rivivere, giorno per giorno, la straordinaria atmosfera di quella spedizione: una spedizione partita male, ma poi cresciuta grazie al valore dei protagonisti: formidabili campioni, grandi uomini, che però dei grandi hanno anche le umane debolezze: rivalità, paure, egoismi. Che si alternano a incredibili slanci di generosità e spirito di sacrifico.
Fossati ci racconta tutto con una scrittura fuori dal comune: unendo al rigore della cronaca una capacità di " allargare" la prospettiva. Di dargli respiro senza però dimenticare i dettagli. Come ai pittori impressionisti, gli basta una pennellata, un taglio di luce:
"...La nazionale sbarcò a Brest il 23 giugno. C'era un chiarore diffuso. Il cielo palpitava di nubi grigie. Brest, che la guerra aveva, sette anni prima, ridotto a un pollice di cemento, era l'esempio del fervore ricostruttivo dei francesi..."
Direte: ma la corsa? Parla della anche corsa? Non fa troppa “letteratura”, come succede a molti giornalisti sportivi quando, per volare troppo alto, scivolano nella trappola della retorica?
No, perché Fossati, che non ama i tromboni, conosce perfettamente la materia. E come un buon artigliano sa mettere, nel racconto, viti e bulloni al posto giusto. Ecco come descrive Coppi lanciato a vincere la tappa del Tourmalet, leggendaria cima dei Pirenei:
“...Ci parve che la sua bicicletta avesse infilato un vertiginosa discesa, non una salita. Il vento gonfiava lo striscione rosso del Tourmalet, quasi fosse una vela. Io vedevo Coppi nello specchietto retrovisore del motociclettone. Non era più un passista-arrampicatore, ma un pistard di alta scuola, uno di quegli aristocratici del muscolo che si issano alla balaustra a pedale fermo e si gettano a tuffo, a pelo di corda. Coppi aveva scambiato il Tourmalet per la curva di un velodromo...”
Straordinario Coppi, ma straordinario anche Fossati, narratore all’altezza del protagonista. Ora che Fossati non c’è più, e anche quel Tour e quel ciclismo, sono entrati nella grande storia dello sport, possiamo dirlo senza farlo arrabbiare. Au revoir, Mario e grazie di tutto.