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Quando lo stress post-traumatico entra in redazione

04/09/2014
Lo stress post-traumatico, un disordine psichico di cui soffrono persone che sono state esposte a episodi di violenza estrema, può colpire anche i giornalisti che lavorano all’interno delle redazioni e che si occupano dei contenuti prodotti dai cittadini.
E’ la conclusione di un gruppo di ricercatori del dipartimento di Psicologia dell’Università di Toronto, in Canada. I risultati dello studio sono stati pubblicati nel Regno Unito dal “Journal of the Royal Society of Medicine” e poi ripresi dal sito Lsdi (Libertà di Stampa Diritto all’Informazione).
Questo “disordine psicologico”, che si manifesta con una forma di forte ansia, viene riscontrata solitamente nelle vittime di attentati o a militari che hanno partecipato a una guerra. Può colpire anche i giornalisti corrispondenti da zone di conflitto, quando vengono coinvolti in episodi estremamente traumatici e stressanti.
Lo studio, il primo di questo tipo, ha concluso però che “il flusso incessante di questo materiale, associato alla durata di alcuni conflitti, fanno sì che i giornalisti siano frequentemente e costantemente esposti a immagini terribilmente inquietanti”. Cosa che determina una aumento degli indicatori dello stress post-traumatico tra i giornalisti.
Mentre è normale essere presi per breve tempo da ansietà o depressione dopo situazioni del genere, le persone che soffrono di questo tipo di disturbo continuano a rivivere l’evento traumatico; evitano persone, pensieri o situazioni associate all’evento, inoltre manifestano una eccessiva emotività. Le persone colpite dal disturbo presentano questi sintomi per più di un mese e non possono svolgere bene le loro mansioni come prima dell’evento traumatico. Generalmente i sintomi compaiono entro tre mesi dal trauma anche se a volte si manifestano dopo mesi o anche dopo anni.
Lo studio è stato condotto alla base di un sondaggio su 116 giornalisti che lavorano in tre grandi testate, di cui non è stato tuttavia rivelato il nome.
Di questi, il 40,9% ogni giorno doveva occuparsi dei contenuti prodotti dagli utenti, in cui si potevano vedere immagini molto violente; il 46,1% lo faceva con una cadenza almeno settimanale.
Anche se il commento è cauto – si spiega infatti che non sono state condotte interviste personali e quindi non si può determinare in nessun modo se i giornalisti al centro dello studio erano colpiti da stress post-traumatico – si sottolinea che c’è una correlazione tra l’esposizione frequente a immagini violente e questo tipo di disagio, così come con la depressione e il consumo di alcol. Il collegamento con questi due comportamenti, tuttavia, non è elevata. Lo studio ha inoltre concluso che sono le colleghe di sesso femminile ad essere le più colpite dalla esposizione a queste immagini.
“La ricerca – spiega il dottor Anthony Feinstein, che ha guidato il lavoro – conclude che è la frequenza dell’ esposizione ad immagini di violenza, piuttosto che la durata, a causare stress emotivo ai giornalisti che lavorano con il materiale prodotto dagli utenti. Dato che il buon giornalismo ha bisogno di giornalisti sani, nelle redazioni è necessario rivedere l’organizzazione del lavoro per evitare i rischi legati alla visione di tali contenuti. I nostri risultati suggeriscono che ridurre la frequenza di queste esposizioni potrebbe essere una soluzione“, è la conclusione del dottor Feinstein.