Sentenza Tribunale di Milano n. 13427/2009
Ai fini deontologici negli articoli discriminatori, ingiuriosi, denigratori ciò che rileva non è l’accertamento e la dichiarazione della loro diffamatorietà ma l’accertamento di fatti da parte del giornalista non conformi al decoro ed alla dignità professionali, o di fatti che compromettano la propria reputazione o la dignità dell’Ordine. La valutazione disciplinare è in tal senso autonoma rispetto a quella dell’autorità giudiziaria in sede penale o anche in sede civile
Con sentenza n. 13427/2009 il tribunale di Milano ha respinto il reclamo di un iscritto contro la decisione del CNOG, con la quale era stata confermata la sanzione inflitta dal Consiglio regionale di due mesi di sospensione dall’esercizio della professione, per avere usato espressioni contrarie al decoro proprio come giornalista e dell’Ordine stesso, cariche di significato antisemita e discriminatorio in base alla religione. In tal modo risultava violato in maniera palese, prima di tutto, il dettato della Carta dei doveri del giornalista, la Convenzione Internazionale sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale recepita sostanzialmente dal D.L. 26 aprile 1993, n. 122 convertito con modificazioni dalla L. 25 giugno 1993, n. 205, nonché tutte le norme della legge ordinistica n. 69/1963in tema di verità, lealtà, rapporto con i lettori (art. 2) e in tema di mantenimento di un comportamento conforme al decoro e alla dignità professionale che non comprometta la stessa reputazione del giornalista nonché la dignità dell’Ordine (art. 48).
Il valore della pronuncia, al di là del giudizio sul fatto, sta nella valutazione che il collegio giudicante fa in ordine al procedimento disciplinare e all’oggetto di esso. “L’oggetto del procedimento disciplinare avanti gli organi giustiziali dell’Ordine dei Giornalisti non è l’accertamento e la dichiarazione della diffamatorietà delle affermazioni dell’incolpato ... né l’eventuale corresponsione – a fronte del danno inflitto all’altrui reputazione o all’altrui onore – di un adeguato risarcimento, bensì l’accertamento della Commissione da parte del giornalista iscritto all’Ordine «di fatti non conformi al decoro e alla dignità professionali, o di fatti che compromettano la propria reputazione o la dignità dell’Ordine»”. Da questo la sentenza giunge a statuire che “va affermato in accordo con il costante orientamento giurisprudenziale il principio dell’autonomia della valutazione disciplinare rispetto a quella effettuata dall’autorità giudiziaria in sede penale o anche in sede civile. (...) Resta fermo che il procedimento disciplinare si presenta come del tutto peculiare ed autonomo, dovendo l’organo deontologico procedere ad una nuova valutazione dell’entità e dell’incidenza dei fatti che hanno formato oggetto del procedimento civile o penale”.
Invero, nota il Tribunale, la questione sottoposta a giudizio non riguarda l’incisione della sfera altrui da parte del giornalista, perché questo riguarda (o ha riguardato) altri giudici e altri giudizi quanto l’incisione da parte dello stesso della sfera propria, in quanto giornalista e in quanto componente dell’Ordine, e della sfera dell’Ordine e dell’intera categoria professionale”. In ciò sta la radice dell’autonomia (ma altresì della dignità propria) del procedimento disciplinare e di quello che è stato chiamato il “magistero deontologico” (o anche, assai meno bene, “giurisdizione domestica”) degli Ordini professionali. E il giudice coglie questa caratteristica nei capitoli di incolpazione degli organi ordinistici nei confronti del giornalista: atti di incolpazione che – a partire dai fatti, ma senza giudicarli – imputano all’incolpato violazioni o di norme generalissime del nostro ordinamento (i principi della Costituzione) o di norme specifiche della professione giornalistica (l’obbligo di esercitare con dignità e decoro la professione, di rispettare la propria reputazione e non compromettere la dignità dell’Ordine professionale, di improntare i propri atti ai principi della buona fede e della lealtà, rafforzando così il rapporto di fiducia tra la stampa e i lettori). “Sono, questi tutti, scrive il giudice milanese, addebiti di carattere deontologico che nulla hanno a che fare con la (eventuale) diffamatorietà degli scritti”. Su questa linea il giudice pone ad oggetto del giudizio e della sentenza a. valutare se e quanto i riferimenti fatti dal giornalista non fossero discriminatori, ingiuriosi o denigratori; b. se tali riferimenti fossero oggettivamente capaci di diffondere idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale o etnico; c. se il comportamento e gli scritti dell’iscritto siano stati o meno “non conformi al decoro e alla dignità professionali”, o abbiano compromesso la stessa reputazione dell’incolpato come giornalista, nonché la dignità dell’Ordine; d. più in generale, se il diritto dei giornalisti alla libertà di informazione e di critica non sia stato travolto dalla mancata osservanza delle norme di legge dettate a tutela della personalità altrui.
Il Tribunale ha risposto puntualmente su ciascuno di questi punti: il giornalista ha pubblicato scritti discriminatori, ingiuriosi, denigratori, di chiaro carattere antisemita e improntati a idee fondate sulla superiorità e sull’odio razziale o etnico. Con ciò – avendo anche pubblicato scritti non conformi al decoro e alla dignità professionali (“è francamente degradante rispetto alla reputazione di un giornalista ... fare ricorso ad espressioni scurrili, idiomatiche, volgari ... o, addirittura oltraggiose come il collegamento tra le persecuzioni subite nel corso della storia del popolo ebraico e il predicato ‘vittimismo’ dello stesso, o la sua ‘rompicoglioneria’” (pag. 14). L’Ordine incorrerebbe “in un vulnus alla sua stessa funzione, prima ancora che alla sua dignità, se non stigmatizzi questi comportamenti” (pag. 14).
Nell’unire il testo della pronuncia si fa presente che il Tribunale ha posto a carico del ricorrente le spese di lite del Consiglio nazionale, più gli accessori di legge.