Eccoci qua. Chi fa il nostro mestiere, dal giovane deskista al vecchio cronista, dal free lance al fine opinionista, una cosa ormai l’ha capita: che bisogna fare i conti con i social network. Ignorarli non si può. Perché si rimane tagliati fuori da un perenne vulcano di notizie e presunte notizie, di commenti e informazioni , importanti per “coprire” bene un avvenimento in corso.
Quindi bisogna sapersi muovere. Selezionando le liste che ci interessano, creando dei giardinetti di persone e fonti che vai a consultare quando è necessario. Chi segue la politica, seguirà chi fa tendenza in politica. Idem per chi copre gli esteri, lo sport, gli spettacoli o quant’altro. Insomma, essere attivi, non farsi incantare da questo grande pifferaio che a volte ci fa correre dietro a messaggi inutili e fuorvianti.
E qui ci siamo. E cresciamo alla svelta visto che nel 2013 in quindici paesi del mondo il 59% dei giornalisti ha usato Twitter. Nel 2012 il 47%. E quest’anno si dovrebbe toccare il 70%. Un numero imponente di colleghi, quindi, che però si fanno tante domande. E dicono: va bene, questi social sono importanti. Ma lavorando con essi valgono le stesse regole che abbiamo sempre usato? Non c’è il rischio, in questa nuova babele, di beccarsi raffiche di querele, di violare la privacy, di tirare in ballo dei minori che non possono difendersi?
Domande legittime, dice l’avvocato milanese Carlo Melzi d’Eril, docente dell’Istituto per la formazione al giornalismo di Urbino, che ci viene in aiuto per districarci in questa matassa. Ma è poi così intricata, avvocato?
“No, in realtà è abbastanza semplice. Ma bisogna saper scremare le notizie e le opinioni vere, dalle bufale e dalle polpette avvelenate messe in rete perché qualcuno le pubblichi. E’ giusto che un giornalista vada a farsi una sua opinione, ma deve sapere che, nel mare dei social, c’è di tutto. Quindi bisogna imparare a nuotare bene...”
Ma usando i social cambiano anche le regole del giornalismo?
“Solo in parte. Nel senso che le vecchie regole vanno bene, l’importante che siano correttamente applicate a uno strumento che bisogna conoscere. I social sono serbatoi di dati che spesso gli interessati mettono a disposizione volontariamente. Ebbene, se io metto sulla mia pagina Facebook dei riferimenti personali non posso poi lagnarmi se qualcuno li utilizza, perché sono stato io il primo a volerli diffondere”.
E se un politico via twitter insulta un altro politico? Un cronista corre dei rischi citandolo?
“No, non rischia nulla. Basta che il cronista si limiti a raccontare l’accaduto e che, poi, non faccia sua quella frase. In questo caso conta l’interesse pubblico. Se l’insulto ha un certo peso, e così pure il politico, prevale l’interesse della collettività ad essere informata. Le regole del giornalismo sono sempre frutto di un bilanciamento di interessi...”
Più precisamente?
“ Le spiego. Nel diritto di informazione da una parte c’è l’interesse della collettività a sapere cosa succede, ed è un diritto di maggior peso. Restano però da tutelare gli interessi dei singoli; per esempio che non venga lesa la propria reputazione, in questo caso con la diffamazione. Oppure che non venga violata la riservatezza, pensiamo quindi al trattamento dei dati personali e alla privacy. Detto tutto questo, però, quando c’è un forte interesse pubblico, l’interesse dei singoli viene un pochino meno...”
Nella cronaca capita che personaggi coinvolti in qualche indagine scrivano su Facebook citando altre persone. Che fare in questi casi?
“Valgono tendenzialmente le norme già vigenti sulla privacy. Se io nella mia pagina Facebook scrivo i fatti miei, il giornalista può utilizzarli come vuole. E suo diritto. Ma se io metto la foto di un’altra persona, e non di me stesso, io per primo faccio un trattamento di dati personali che, se non è consentito dalla persona interessata, diventa un trattamento illecito. A quel punto il giornalista deve fare molta attenzione, perché opera anch’egli un trattamento illecito, nato da un illecito precedente in cui lui non c’entra niente ma che il cronista può elevare alla potenza”
E se si tira in ballo dei minori?
“Bisogna fare moltissima attenzione. Tutti i giudici, dal garante della privacy al giudice penale, si attengono a una regola: che dei minori non si può parlare mai, a meno che non sia nel loro esclusivo interesse. Mi spiego: se scompare un minore è chiaro che bisogna dire nome, cognome e altri riferimenti utili. Ma usando la testa, come dicevano i vecchi maestri. Non aggiungere elementi che non hanno attinenza alla ricerca. Per esempio scrivere che il minore è stato adottato. Cosa serve scriverlo? Questo elemento non aiuta a ritrovare il minore. E quindi non è nel suo oggettivo interesse riferirlo. E se un cronista lo scrive o lo dice, sappia che fa un trattamento illecito”.
Concludendo, avvocato, un ultimo esempio. Un inviato di esteri, finito a seguire qualche guerra o rivolta, che credibilità deve dare ai messaggi dei social?
“Anche qui valgono le vecchie regole del buon giornalismo. I social sono dei grandi serbatoi di notizie, della cui attendibilità bisogna però sempre dubitare. E’ come se il vecchio cronista, che consumava le scarpe per mantenere i contatti con le fonti, oggi cammini nella grande piazza dei social. Una piazza dove c’è tanta gente. Gente che parla e parla... Quindi bisogna essere ancora più prudenti. Saper distinguere, incrociare i dati, verificare che la fonte sia attendibile. Calma e gesso, insomma. Come sempre”.